SEGNALAZIONI DI DOTTRINA AGGIORNATE AL GENNAIO 2001 SUL FENOMENO DEL MOBBING
L’esplosione del fenomeno del mobbing rappresenta il segnale più evidente delle nuove forme di disorientamento, di disagio e di ingiustizia provocate dalla moderna organizzazione delle “risorse umane”.
Questo libro, di taglio essenzialmente pratico, offre il massimo contributo possibile al tema individuando le responsabilità, le norme e le categorie di riferimento, i precedenti utili, le misure del risarcimento, il rapporto tra danni da mobbing e la nuova disciplina INAIL.
Il tutto senza ignorare l’attenzione della giurisprudenza al mobbing quale concetto esportabile anche al di fuori del mondo del lavoro, ad esempio in materia di separazione coniugale.
L’appendice dell’opera, particolarmente ricca, presenta una selezione del materiale indispensabile per conoscere il problema sotto il profilo giuridico: le principali sentenze, per esteso; tutti i progetti di legge; i siti Internet che pubblicano materiale sul tema; un confronto con l’esperienza angloamericana, che da anni ha elaborato categorie della prevaricazione sociale quali bullying, mobbing, harassment.Gli atti del convegno del 10 ottobre 2000 tenutisi a Milano sul tema “La tutela giuridica del
lavoratore nei casi di mobbing”, organizzato dall’Ordine degli
Avvocati di Milano in collaborazione con la rivista Guida al
Lavoro de Il Sole 24 Ore e Syntagma.e consultabili
on line sul sito di Guida al lavoro.it
http://www.guidaallavoro.it/lavoro/default.asp
DANNO BIOLOGICO E MOBBING PREMESSA
LA DEFINIZIONE DELLA FATTISPECIE GIURIDICA: GLI ATTI E COMPORTAMENTI
GIURIDICAMENTE RILEVANTI E QUALIFICABILI COME CONDOTTA DI MOBBING
DEFINIZIONE DELLA NOZIONE DI MOBBING NEL CAMPO CLINICO-EPIDEMIOLOGICO
IL BENE GIURIDICO LESO: L’INTEGRITA’ PSICO-FISICA DEL LAVORATORE E IL DANNO BIOLOGICO. QUALE RISARCIBILITA’: COME DANNO PSICHICO, DANNO ESISTENZIALE E ANCHE TECNOPATIA? – Avv. Lino Greco
IL QUADRO NORMATIVO ATTUALE A TUTELA DELLA DIGNITÀ DEL LAVORATORE
ED I PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ DELLA CONDOTTA DI MOBBING.
I DISEGNI, PROGETTI E PROPOSTE DI LEGGE RELATIVI AL MOBBING
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1) IL MOBBING NELLA GIURISPRUDENZA Relatore: Dott. Riccardo Atanasio
Tribunale di Milano Fonte: Guida al lavoro (Il sole 24 ore) – http://www.guidaallavoro.it/lavoro/redazione/mobbing/Atanasio_Relazione.html
DANNO BIOLOGICO E MOBBING
PREMESSA
La prima domanda che sorge spontanea in chi – come il sottoscritto – inizia ad occuparsi di una tematica affatto
nuova, sotto l’aspetto normativo e giurisprudenziale quale appunto è il mobbing, è in che consista esattamente.
Ed infatti l’esame degli articoli apparsi nelle varie riviste che si sono occupate in questi mesi del fenomeno
denuncia una certa confusione nei redattori anche perché, a parere di chi scrive, l’analisi del problema è partita da
studi di carattere psichiatrico e quindi per certi versi dalla fine del processo; nel senso che, accertata l’esistenza
di una pluralità di soggetti, con patologie di rilevanza psichiatrica ed individuata l’azienda quale luogo in cui quei
disturbi abbiano avuto origine si è cercato di studiarne le cause attraverso i racconti provenienti dai soggetti
interessati.
In tal modo gli studiosi del fenomeno hanno individuato una pluralità di comportamenti che avrebbero dato origine
alla patologia senza però che gli stessi si preoccupassero (non competendo loro) di verificare preliminarmente la
rilevanza giuridica di quegli atti che invece in alcuni casi possono al più avere una rilevanza di tipo statistico –
sociologico.
Più chiaramente, nel caso dello studio del fenomeno mobbing (a differenza di quanto tradizionalmente avviene in
ambito giuridico per cui dal comportamento rilevante giuridicamente in quanto tenuto in violazione di una norma – e
come tale contra legem – si esaminano i possibili effetti e conseguenze di carattere risarcitorio), il punto di
partenza è costituito dalle patologie accertate ed il passo successivo è stata l’individuazione delle cause e dei
possibili rimedi.
Quindi, ciò che sembra caratterizzare il fenomeno in esame è innanzi tutto l’angolo visuale: posto che un certo
soggetto è certamente ammalato in quanto a tale conclusione è pervenuto lo psichiatra che lo ha esaminato,
qualora la causa trovi una sua collocazione in ambito lavorativo, la conclusione cui sembra pervenire una pluralità
di persone è che si è in presenza di una ipotesi di mobbing.
Proprio in quanto il fenomeno prende le mosse da studi di natura psichiatrica e/o di medicina del lavoro non si può
certo prescindere da quelli e dalle linee generali del fenomeno che sono state tracciate dagli studiosi.
IL MOBBING QUALE FENOMENO MEDICO E SOCIOLOGICO
Secondo il Dott. Harald Ege – che ha studiato il fenomeno nei Paesi nordeuropei per oltre un decennio e che
attualmente svolge la propria attività a Bologna – il mobbing si sostanzia in un problema di comunicazione, in
una routine del conflitto, vale a dire in un atteggiamento ostile nei confronti di una o più persone che, come tale,
si caratterizza per la durata e la frequenza (ma sulla sussistenza di tali requisiti concorda anche il primo studioso
in assoluto del fenomeno il Dott. ) .
Egli ritiene che alcuni lavoratori abbiano dentro di sé la cultura del conflitto o del litigio che poi può essere
manifestata successivamente in certe condizioni; ritiene l’Ege che ciò si può ad esempio verificare quando uno dei
due lavoratori riesca ad imporre per una qualsiasi ragione una certa scelta di lavoro all’altro; nel caso in cui non
spieghi la ragione e la fondatezza di tale scelta – che venga per tale ragione solo subita e non compresa dall’altro
– può accadere che quest’ultimo finisca per accogliere in sé un’idea di conflitto (“quando mi si presenterà
l’occasione gliela farò pagare”).
Egli ha analizzato il fenomeno individuandone LE FASI, LE AZIONI, GLI ATTORI, LE POSSIBILI SOLUZIONI.
A.L’Ege ha innanzi tutto scorporato il fenomeno pur unitario in una pluralità di fasi:
1.La condizione zero – caratterizzata da un humus particolarmente fertile in cui il fenomeno mobbing
può attecchire – è rappresentata da un clima ostile di tensione (ad es. l’ambizione di alcuno, la
concorrenza tra i vari lavoratori, il clima particolarmente sfavorevole del mercato del lavoro);
2.La fase uno vede indirizzare l’ostilità del clima del luogo di lavoro verso una determinata persona, la
quale assume la veste di capro espiatorio in quanto qualsiasi problema aziendale e/o dei singoli
lavoratori gli viene in qualche modo attribuito; ciò sul semplice spesso casuale presupposto che in una
singola occasione il capro espiatorio avesse effettivamente avuto la responsabilità dell’accaduto.
Secondo l’Ege, in questa fase il fenomeno mobbing non è ancora emerso con chiarezza e non è ancora
possibile capire se mai si realizzerà.
3.Nella fase due il fenomeno mobbing prende piede e si afferma la cosciente volontà di alcuni di colpire il
capro espiatorio.
4.Nella fase tre la vittima comincia ad avvertire i primi sintomi psicosomatici, che si manifestano con
l’insonnia, la paura, il panico.
5.La fase quattro si caratterizza per l’oggettività e la pubblicità del fenomeno mobbing che diviene di
dominio pubblico in quanto vengono consumati gli abusi da parte degli altri dipendenti e/o datore di
lavoro.
6.Nella fase cinque le condizioni di salute della vittima si aggravano seriamente; quella si sente crollare
il mondo addosso e spesso subisce il cd doppio mobbing, in quanto alle vessazioni che deve
sopportare in azienda si aggiungono le incomprensioni che provengono dal nucleo familiare il quale
tende a ritenere che le colpe di quanto accade siano da attribuire al comportamento della stessa
vittima; questa, pertanto, perdendo i punti di riferimento essenziale della propria esistenza, perde
sempre più fiducia in se stessa favorendo col proprio comportamento l’azione del mobber e aggravando
le condizioni della propria psiche.
7.La fase sei si caratterizza per l’esclusione della vittima dal mondo del lavoro con situazioni che
possono essere le più varie in quanto il modello è estremamente flessibile e può essere rappresentato
dal licenziamento, dalle dimissioni, dall’omicidio o dal suicidio.
B) L’Ege ha poi classificato le azioni che vengono solitamente compiute dai mobber al fine dell’emarginazione
della vittima, individuando le seguenti fattispecie:
1.la negazione degli atti umani (impedendo alla vittima di comunicare con i colleghi di lavoro);
2.l’isolamento sistematico (ponendo la vittima lontano dai colleghi o compiendo gesti di negazione di
colloqui);
3.il demansionamento o la privazione assoluta di qualsiasi mansione;
4.attacchi alla reputazione della persona (nell’aspetto che attiene alle sue opinioni politiche o agli
atteggiamenti sessuali o familiari);
5.la violenza o le molestie sessuali (seppure molto più raramente).
C) L’Ege ha poi osservato che anche nelle persone che partecipazione alla realizzazione del fenomeno
è possibile individuare caratteristiche costanti : così la vittima può essere qualsiasi persona che però
si presenti come “diverso” agli occhi dei colleghi; il mobber può essere sia un collega che un superiore
o addirittura un subordinato il quale cerca alleati con gli altri lavoratori al fine di aggredire la vittima;
infine vi è lo spettatore il quale è determinante per l’insorgenza del fenomeno in quanto consente che
la persecuzione psicologica venga consumata davanti ai suoi occhi senza che egli faccia alcunchè per
aiutare la vittima.
D) Infine l’Ege ha osservato che le soluzioni devono avere soprattutto carattere preventivo in quanto
l’azienda deve sin dall’inizio pensare ad assegnare un certo tipo di mansioni e determinate funzioni
proprio in considerazione delle caratteristiche del lavoratore e di quelle con le quali egli verrà in
rapporto.
IL MOBBING DA PUNTO DI VISTA DEL RAPPORTO DI LAVORO
Chi scrive non dubita della serietà delle analisi di chi ha studiato il problema sotto l’aspetto psichiatrico per essersi
trovato di fronte a centinaia o addirittura migliaia di soggetti ammalati a causa del lavoro.
Il problema è che però queste analisi tendono ad esaminare un rapporto, o meglio la gestione di una pluralità di
rapporti particolarmente complessa – in quanto tra loro intersecantisi – quale è quella che sussiste nell’ambito del
luogo di lavoro.
Più chiaramente si tratta di rapporti i quali, traendo origine da strutture in cui è costretta a convivere una pluralità
di persone, presentano tematiche – oltre che proprie e tipiche dell’ambiente di lavoro – per altri versi simili a quelle
che si rinvengono in ogni ambito sociale (si pensi ai rapporti familiari, a quelli sportivi, ricreativi, di condominio,
ecc.).
E’ certo vero però che, nel caso che ci occupa, la peculiarità ed importanza del fenomeno scaturiscono dal fatto
che la gestione del rapporto sociale perde l’aspetto della volontarietà e spontaneità per accedere a quello della
necessità, in conseguenza del fatto che nessuno può volontariamente sottrarsi all’ineluttabilità del doversi
procurare i mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia.
Ciò premesso, la domanda che occorre porsi è : mentre di certo le centinaia, migliaia (e – secondo alcune
statistiche di cui si legge ormai in molte riviste – addirittura milioni) di persone che soffrono di tali disturbi e
malattie sono soggetti bisognosi di cure, in quale modo e fino a che punto di quei disturbi e malattie si può far
carico ai colleghi o al datore di lavoro; più chiaramente occorre chiedersi quali delle centinaia se non migliaia di atti
e comportamenti che compongono un rapporto di lavoro devono divenire rilevanti giuridicamente al fine di condurre
ad un’affermazione di civile responsabilità di colleghi e/o datore di lavoro per la malattia dalla quale il lavoratore
risulta essere affetto.
E dopo essere riusciti a dare una risposta a questa prima domanda, occorre porsene una seconda: una volta
individuati gli atti definiti rilevanti, si può porvi rimedio con strumenti giuridici già esistenti o invece è proprio
necessario ricorrere alla creazione di nuove fattispecie normative che regolino quei comportamenti che altrimenti
resterebbero fuori da ogni regolamentazione ?
La risposta a queste domande appare indispensabile in una fase come quella attuale in cui si cerca di portare su di
un piano di rilevanza giuridica comportamenti che allo stato sembra abbiano – almeno in Italia – solo rilevanza di
carattere sanitario. Ciò in quanto proprio l’estensione del fenomeno, di cui pure le statistiche ci offrono la portata,
potrebbe costituire la causa prima della sua incapacità di divenire rilevante giuridicamente qualora non si riesca a
ritagliarne degli elementi di specificità, che però in molti casi devono essere ricondotti nell’ambito di figure
giuridiche già note.
Così – e per fare degli esempi – da alcuni vengono indicati come potenzialmente rilevanti : i litigi o dissidi con
colleghi più frequenti del solito; il silenzio dei colleghi al momento dell’entrata nella stanza del lavoratore
discriminato; l’essere esclusi da feste aziendali o altre attività sociali; il non ricevere risposta a richieste scritte o
verbali; il suscitare ilarità nei colleghi per l’abbigliamento; ottenere solo rifiuti alle proprie proposte di carattere
professionale.
Ma non v’è chi non veda che tutti questi atti in sé considerati ed singolarmente esaminati sembrano assolutamente
neutri: nel senso che su di essi non può seriamente pensarsi di fondare un giudizio di responsabilità civile se non
nel solo caso forse in cui si dimostri (ma con quale immaginabile difficoltà di carattere processuale! ) che essi siano
tutti legati tra loro da un filo teso ad arte da parte di qualcuno che abbia come obiettivo proprio l’emarginazione
del lavoratore e la sua espulsione dal posto di lavoro o nel caso che comunque ad essi si accompagnino poi altri
comportamenti che invece abbiano autonoma rilevanza giuridica.
Tra questi ultimi ricordiamo (e sono infatti già sanzionati dalla legge o dalla giurisprudenza): l’essere adibito a
mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali si è stati assunti (demansionamento); l’essere oggetto di illegittimi
trasferimenti, procedimenti disciplinari, licenziamenti; il non ottenere la reintegrazione nelle mansioni o nel posto di
lavoro precedentemente occupato nonostante il provvedimento giudiziale che lo abbia disposto; l’essere oggetto di
maltrattamenti verbali che possano addirittura sconfinare nel reato di ingiurie, l’essere licenziato con modalità
ingiuriose, l’essere escluso illegittimamente da concorsi per l’accesso a qualifiche superiori, l’essere costretto a
lavorare ininterrottamente senza godere del riposo settimanale, l’essere costretto a lavorare in misura eccessiva a
causa di un eccessivo carico di lavoro.
Ebbene, in tutte le ipotesi appena esaminate e singolarmente prese, non v’è dubbio che già esiste una disciplina
normativa (o di formazione giurisprudenziale) di tutela del lavoratore e che, in alcune di esse, al riconoscimento
dell’illegittimità dell’atto si associa anche il riconoscimento di risarcimenti di danni: ciò avviene in caso di
demansionamento o di licenziamento (anche ingiurioso) nel primo dei quali la giurisprudenza ha previsto sia il
risarcimento del danno alla professionalità o all’immagine professionale sia – nei casi più gravi – quello biologico per
i danni alla salute e alla vita di relazione.
Tuttavia quelle fattispecie possono costituire il presupposto o, se si vuole, l’elemento aggregante di tutti gli altri
comportamenti di per sé neutri, qualora ad uno o più comportamenti datoriali di questa natura se ne associno altri
– questa volta anche neutri – provenienti dallo stesso datore o da superiori o colleghi del mobbizzato.
E qui siamo al punto più delicato della questione.
Perchè se è certo possibile accedere all’idea che le persecuzioni psicologiche perpetrate ai danni di un lavoratore
trovino la loro scaturigine diretta (o indiretta, attraverso gli altri dipendenti o funzionari) nella volontà del datore di
disfarsi di un lavoratore scomodo o semplicemente non gradito : ed allora in tal caso è sufficiente costruire la
fattispecie sulla base di una serie di atti tipici quali il demansionamento, il trasferimento o il licenziamento illegittimi
ai quali si accompagnino alcuni degli atti per così dire atipici ma idonei ad isolare il lavoratore e a discriminarlo
(sicchè in ogni caso quei comportamenti sarebbero direttamente riferibili al datore di lavoro, con conseguente
responsabilità di carattere civilistico a suo carico: è questo il caso che viene ormai qualificato come bossing);
altrettanto non può farsi nel caso di una pluralità di soli atti atipici che provengano esclusivamente da colleghi di
lavoro (mobbing vero e proprio).
Ciò in quanto con riferimento a questi ultimi casi :
non ci si trova solitamente di fronte ad atti tipici assunti contra legem;
proprio in considerazione della loro atipicità ed al loro carattere per così dire neutro, non è semplice
distinguere quelli che sono effettivamente diretti ad arrecare danno al lavoratore rispetto a quelli che invece
rientrano nella normale gestione dei rapporti sociali;
non trova cittadinanza nel nostro ordinamento il principio per il quale nell’ambito dei rapporti sociali vi sia un
reciproco obbligo di rispetto e di socializzazione tra i soggetti dell’ordinamento che non siano tra loro legati
da vincoli di natura contrattuale;
non trova nemmeno cittadinanza il principio per il quale nell’ambito di siffatti rapporti l’escluso –
indipendentemente dall’accertamento se la responsabilità di quell’emarginazione sia o meno addebitabile
anche a sua colpa – debba essere in qualche modo tutelato anche imponendo obblighi di natura risarcitoria a
carico dei soggetti che hanno contribuito all’emarginazione del primo;
appare problematico consentire al giudice di intervenire nella gestione di rapporti sociali, autorizzandolo ad
emettere giudizi di natura essenzialmente morale, a fronte di comportamenti che non abbiano una propria
rilevanza giuridica intrinseca;
simili interventi statuali potrebbero allora astrattamente essere estesi ad ogni ambito sociale in cui la
personalità del singolo è destinata a formarsi: dalla famiglia alla scuola, dalle associazioni ricreative a quelle
sportive fino a quelle culturali, politiche o sindacali ecc.
e l’ultima conseguenza di tale processo potrebbe essere che – a fronte della vastità del fenomeno sì da
caratterizzarsi quale fenomeno di massa – il fenomeno perderebbe il proprio carattere patologico in tal modo
conducendo ad un giudizio assolutorio nei confronti anche di fattispecie delle quali invece sia possibile
evidenziarne le illegittimità.
Da qui la necessità di individuare elementi di specificità che abbiano la funzione di delineare con precisione l’ambito
della figura “incriminata” alla cui sussistenza fare conseguire determinati effetti di carattere risarcitorio.
La conseguenza di quanto si è appena detto è allora che occorre tenere ben distinte le due figure del cd bossing
dal cd mobbing.
a) Nella definizione del primo infatti è certamente agevole individuare comportamenti tipici inequivocabili
(come si è detto: licenziamenti, demansionamenti, dequalificazioni, mancata osservanza dei provvedimenti di
reintegra del giudice) ed altri che pur essendo atipici (si pensi ad es. al controllo esasperato dell’orario di
lavoro, del tempo di stazionamento presso la macchina del caffè, del tempo delle telefonate o ancora alle
visite fiscali inviate in modo vessatorio) sono però anch’essi espressione immediata dell’autorità o del potere
di supremazia esercitato dal datore di lavoro o – per suo conto – dai dirigenti e comunque dai superiori
gerarchici del lavoratore colpito.
Per questa figura pertanto non sembra necessario ricorrere a configurazioni legislative di nuova creazione,
anche perché è certo possibile affermare in questi casi la responsabilità del datore di lavoro per le patologie
che siano derivate al lavoratore da simili comportamenti, facendo uso dei consueti strumenti di cui agli artt..
2087 c.c. (per il quale l’imprenditore è tenuto ad adottare le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro), 2103 c.c. (che vieta il demansionamento o il
trasferimento ingiustificato), 32 Cost. (che tutela il diritto alla salute con norma immediatamente
precettiva), 18 St. Lav..
Ed il datore di lavoro può certo essere ritenuto responsabile dei danni biologici permanenti o temporanei
assoluti che siano derivati al lavoratore dai comportamenti propri o dei propri immediati sottoposti e che
dunque siano a lui direttamente riferibili.
b) Affatto diversa è invece la situazione con riferimento al mobbing in senso stretto vale a dire alle
persecuzioni che possano venire perpetrate dai colleghi di lavoro.
1.Come si è prima accennato vi è tutta una serie di comportamenti che non è di per sè significativa o
giuridicamente rilevante (i colleghi di lavoro: evitano di parlare con la vittima; fanno circolare
pettegolezzi, quando questi non sfocino in vere e proprie forme di diffamazione perseguibili penalmente; sono
soliti ridicolizzarla; enfatizzano alcuni handicap o caratteristiche etniche o particolarità nel suo modo di
parlare, camminare, vestire, ridere, ecc.) anche qualora ciò avvenga per gelosia, invidia, o anche solo
perché la vittima sia semplicemente diverso o comunque di quella non se ne condividano le idee e gli
atteggiamenti. In questi casi – comportamenti atipici – non sembra vi siano strumenti giuridici particolari
che consentano di affermare la responsabilità dei colleghi per i danni che da questi comportamenti siano
derivati alla vittima.
2.Accanto a questi comportamenti ve ne sono poi altri che invece pur non essendo strettamente inerenti al
rapporto di lavoro, come del resto tutti gli altri prima esaminati, tuttavia si caratterizzano per essere
comportamenti già di per sé rilevanti giuridicamente quali le molestie sessuali, le aggressioni fisiche e
quelle verbali, come le molestie e le ingiurie: ma non v’è chi non veda come in questi casi l’aggredito sia
sufficientemente tutelato dalle normative già vigenti e che in questi casi non si senta affatto l’esigenza di
regolare la fattispecie.
*****
Da quanto si è appena detto deriva allora che la nostra attenzione deve essere concentrata sulle sole fattispecie
di mobbing di cui al punto b1).
Il Leymann ha sottolineato come il mobbing si sostanzi in una forma di terrorismo psicologico che implica un
atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone eminentemente nei
confronti di un solo individuo il quale viene così a trovarsi in una condizione di minorata difesa; ma ciò che
veramente rileva è che egli sottolinea la necessità che queste iniziative abbiano una determinata frequenza e
ripetitività che individua statisticamente in almeno una volta alla settimana per un tempo generalmente non
inferiore a sei mesi.
Ecco, a parere di chi scrive, individuata la peculiarità del mobbing che valga a distinguerlo da figure giuridicamente
già note.
Riprendendo le ipotesi di atti non significativi o atipici (come si è detto: i colleghi evitano di parlare con la vittima;
fanno circolare pettegolezzi; sono soliti ridicolizzarla; enfatizzano alcuni handicap o caratteristiche etniche o
particolarità nel suo modo di parlare, camminare, vestire, ridere, ecc.) è di intuitiva evidenza che la ripetizione
esasperata, quotidiana o quasi, da parte di una pluralità di colleghi di un gesto, di un tic, di un modo di
ridere o di camminare esposto in maniera offensiva può costituire un chiaro messaggio rivolto alla vittima circa il
suo isolamento, pur rimanendo gli aggressori all’interno di forme di comunicazione non immediatamente sanzionabili
di per sé da un punto di vista giuridico.
Sicchè in queste ipotesi allora si può individuare una fattispecie astratta che apre scenari nuovi nel mondo del
lavoro in quanto fino ad oggi sconosciuta.
E si può poi decidere di regolamentarla normativamente oppure anche solo lasciare che sia la giurisprudenza ad
individuarne le peculiarità prima che un intervento legislativo finisca per restringerla all’interno di confini troppo
stretti in una fase per così dire ancora fluida, di approccio al fenomeno.
Infine una riflessione sulle responsabilità del datore di lavoro in materia di mobbing così descritto: mentre nessun
dubbio si può avere circa le responsabilità per il datore scaturenti dalla malattia del lavoratore che trovi la sua
origine in comportamenti di natura persecutoria scaturenti da forme di bossing, proprio in quanto immediata
espressione dell’autorità datoriale esercitata in maniera illegittima, dubbi possono sorgere in questo caso.
Tuttavia non sembra che le regole da applicare siano diverse da quelle di cui anche in passato si è fatta
applicazione in materia ad es. di molestie sessuali o comunque di forme di aggressione verbale o fisica provenienti
da superiori del lavoratore: in tutti questi casi, trattandosi di atti illeciti completamente scollegati rispetto al
rapporto di lavoro, non se ne può fare carico al datore di lavoro fino a quando questi non ne sia venuto a
conoscenza. Quando ciò sia avvenuto, allora potendo egli disporre di potestà disciplinare all’interno dell’azienda, il
mancato utilizzo di tali poteri per stroncare i suddetti comportamenti lo espone ad una responsabilità di carattere
risarcitorio nei confronti del lavoratore, giusta la previsione di cui all’art. 2087 c.c..
IL MOBBING NELLA GIURISPRUDENZA
Individuate le caratteristiche peculiari della fattispecie del mobbing si può passare ad una esame delle sentenze
che sono espresse in materia.
Allo stato, in considerazione della relativa novità del fenomeno apparso sulle riviste e sui quotidiani italiani da poco
meno di un anno, è di intuitiva evidenza la ragione per la quale fenomeno non ha ancora assunto una sua
consistenza di tipo giurisprudenziale; sono state infatti edite solo due sentenze in materia di mobbing e di queste
solo una è stata pronunciata all’esito di un procedimento in cui i fatti esaminati sono stati qualificati dal giudice
come integranti una vera e propria fattispecie di mobbing.
1.La sentenza del Tribunale di Torino in data 16.11.99 estensore dr. Ciocchetti ( pubblicata nella rivista
“Lavoro e previdenza oggi” n.1 del 2000 pag. 154) è stata emessa all’esito del procedimento nel corso del
quale è stato dedotto che:
la lavoratrice ricorrente era stata assunta a tempo determinato con contratto di quattro mesi,
successivamente rinnovato, ed assegnata dopo pochi giorni ad una macchina (la 140) che si
caratterizzava per lo spazio angusto in cui era collocata e per impedire ogni forma di rapporto con gli
altri colleghi di lavoro (essendo quegli angusti spazi chiusi su tutti i lati);
la situazione della ricorrente era particolarmente aggravata dal fatto che il proprio capoturno era
“aduso a trattare in modo non urbano i propri sottoposti” in quanto “reagisce …alle richieste della
ricorrente per guasto macchina con bestemmie ed insulti e alle lamentele in ordine all’eccessiva
onerosità della mansione con frasi sarcastiche ed offensive”;
la ricorrente si era assentata per malattia ricollegabile a tale situazione lavorativa dopo circa 5 mesi
avendo contratto, a causa “delle intollerabili condizioni di lavoro e della situazione di segregazione
patita, una grave forma di crisi depressiva con frequenti stati di pianto ed agorafobia, crisi senza
precedenti nella sua storia personale”.
La società si era costituita contestando le deduzioni avversarie.
SULLA DEFINIZIONE DI MOBBING
Il giudice ha provveduto innanzi tutto a fornire una propria definizione di mobbing, individuandolo “allorché il
dipendente è oggetto di soprusi da parte dei superiori e in particolare vengono poste in essere nei suoi confronti
pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e nei casi più gravi ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di
intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore…”.
b) SUL RAPPORTO DI CAUSALITA’ TRA AMBIENTE DI LAVORO E PATOLOGIA
Quindi il giudice è passato all’esame dei testi giungendo alla conclusione che la ricorrente non aveva mai sofferto in
passato di disturbi e stati patologici e che aveva subito dal proprio capo turno vere e proprie aggressioni verbali a
causa del comportamento “irritante ed arrogante” e del “linguaggio incivile ed offensivo” peraltro notorio in azienda:
tale comportamento unitamente allo spazio eccessivamente ristretto in cui la ricorrente era stata costretta ad
operare sono stati considerati dal Giudice elementi sufficienti a integrare la causa efficiente della patologia dalla
stessa avvertita dopo circa cinque mesi di lavoro, senza peraltro ritenere di dovere ricorrere all’ausilio di un
consulente medico legale o psichiatra (ma limitandosi a fare proprie le conclusioni reperite nella relazione del
proprio Ct di parte allegata dallo stesso ricorrente).
c) SULLA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO
A tale proposito il Giudice il titolo di quella l’ha individuata nella circostanza – provata per testi – che la società era
venuta a conoscenza del ristretto spazio in cui era costretta ad operare la ricorrente e nel richiamo agli artt. 32
Cost. e 2087 c.c. già prima citati.
d) SULLA QUANTIFICAZIONE DEL DANNO PATITO DALLA LAVORATRICE
Il Tribunale di Torino – accertato che la patologia non aveva lasciato postumi di natura permanente in quanto la
ricorrente aveva iniziato a mostrare segni di miglioramento evidenti già poco dopo che il rapporto di lavoro era
stato risolto – si è limitato a liquidare il danno biologico temporaneo assoluto calcolato in via equitativa in L. 10
milioni.
CONSIDERAZIONI
Nella sentenza si legge per la prima volta una definizione del fenomeno mobbing individuato nei suoi caratteri
essenziali nelle pratiche dirette ad isolare il lavoratore dall’ambiente di lavoro e nei casi più gravi ad espellerlo (e
già questo costituisce una nota di merito per il Giudice che ha avuto il coraggio di affrontare una tematica tanto
nuova). Tuttavia – alla luce di quanto rilevato più su – chi scrive ritiene di non poter condividere quella definizione
a causa della sua eccessiva genericità, che, come tale, sembra possa essere di scarsa utilità al fine di creare una
nuova figura giuridica cui il lavoratore possa pensare di ricorrere, per una più completa tutela dei propri diritti e
della propria personalità.
Va inoltre rilevato che l’affermazione di responsabilità del datore di lavoro si fonda sul rapporto di consequenzialità
sussistente – secondo la prospettazione del Tribunale – tra comportamenti incivili attribuibili al capoturno nonché
costrizione della ricorrente a lavorare in un ambiente angusto – da una parte – e patologia in cui la lavoratrice
sarebbe incorsa – dall’altra. Il Tribunale ha però del tutto trascurato di esaminare in quante occasioni e per
quanto tempo la ricorrente avrebbe subito il trattamento incivile del capoturno, in tal modo venendo meno ad
uno degli indicatori che pure gli studiosi del fenomeno (come ad es. il Leymann e l’Ege) hanno considerato come
essenziale al fine della sua sussistenza.
Certamente l’ aspetto di novità può essere individuato nel fatto che l’affermazione di civile responsabilità viene
ricollegata alle semplici manifestazioni di aggressione psichica di cui sia vittima il lavoratore, laddove, in passato,
ciò sarebbe stato possibile solo sulla base della realizzazione di atti tipici che avessero determinato nel lavoratore
una determinata patologia (atti tipici che si è detto sono stati individuati nel demansionamento, nella perdita di
chances, nelle molestie sessuali ecc). Sicchè l’affermazione della sussistenza di un’ipotesi di mobbing potrebbe
invece oggi consentire di porre in rapporto di causalità patologie e qualsiasi forma di aggressione in qualche modo
ricollegabile al datore di lavoro.
La pericolosità di tale deduzione è però evidente. Proprio perché così indeterminato il mobbing va affermato solo in
presenza di atti di persecuzioni insistenti, frequenti e ripetitive; solo in tali casi si po’ affermare con sufficiente
dose di probabilità che la patologia che ne sia seguita sia ricollegabile con rapporto di causalità adeguata a quelle
forme di persecuzione.
Solo la ripetitività esasperata da parte di una pluralità di colleghi consente agli atti atipici – facilmente
confondibili con ricorrenti forme di comunicazione disturbata – di assurgere al superiore rango di attività di natura
persecutoria rivolta ad un determinato soggetto per isolarlo e per indurlo ad abbandonare l’azienda; ciò in quanto
solo con tale ripetitività quegli atti denunciano in maniera obiettiva l’intento illecito volto a colpire e destabilizzare
psicologicamente il destinatario di quelle forme di aggressione.
La conseguenza di quanto detto – e proprio in quanto allo stato non è possibile nemmeno astrattamente
prospettare la casistica che possa essere portata nei mesi ed anni a venire all’attenzione del giudice – è che in
una fase almeno iniziale ci si astenga da tipizzazioni legislative che potrebbero imbalsamare l’attività del giudice
lasciando invece che sul punto si formi un sostrato di conoscenze sulle quali il legislatore possa successivamente
modellare una fattispecie astratta di mobbing.
2) Considerazioni pressochè simili si possono esprimere poi nei confronti di altra sentenza emessa sempre dal
Tribunale di Torino in data 30.12.99, estensore il medesimo Dr. Ciocchetti.
In questo caso ci si trova di fronte ad una lavoratrice che viene contattata dal Presidente della società ed indotta
a dimettersi in quanto la società stessa è venuta a conoscenza della circostanza che il di lei convivente – già
dipendente ella stessa società che si è appena dimesso – ha iniziato a prestare attività lavorativa per altra società
concorrente.
La ricorrente, a seguito di tale colloquio cade in malattia (luglio 97) e questa si protrae fino al dicembre dello
stesso anno.
Nel contempo, durante la malattia della ricorrente, la società assume altra dipendente alla quale affida una
posizione pressoché sovrapponibile a quella della ricorrente la quale invece, al suo ritorno in azienda dalla malattia,
viene assegnata a mansioni diverse che, pure rientrando astrattamente nell’ambito dell’inquadramento di
appartenenza, non assicurano la professionalità pregressa, vale a dire l’uso della lingua straniera in considerazione
dei contatti che teneva con la clientela estera.
E tale demansionamento permane fino al 30.9.98 data in cui la ricorrente rassegna le dimissioni.
Il Tribunale pertanto ha condannato la società a risarcire alla ricorrente il danno da demansionamento per il periodo
compreso tra il 1.12.97 ed il 30.9.98.
CONSIDERAZIONI
Anche in tale caso va ribadito che sembra affatto inutile il ricorso alla figura del mobbing della quale non sembra
ricorrano i presupposti né ve ne sia la necessità: non ne ricorrono i presupposti perché non vi è la ripetitività nel
tempo degli atti di aggressione psicologica; non ve n’è la necessità in quanto sarebbe stato sufficiente – come del
resto ha fatto lo stesso giudice risarcendo il danno da dequalificazione e limitandolo al periodo di effettiva
assegnazione della ricorrente a mansione ritenuta dequalificante – ricorrere alle regole generali in materia di
demansionamento e conseguente risarcimento del danno senza la necessità di scomodare la figura del mobbing.
3) Accanto alle sentenze appena esaminate si pone quella della Cassazione 8.1.00 n.143 in Guida al Lavoro n.4 del
1.2.2000, per la quale : “Accuse non provate di mobbing giustificano la comminazione di un licenziamento per giusta
causa per violazione del rapporto di fiducia”. Il mobbing è “quel fenomeno che indica l’aggredire la sfera psichica
altrui mutuato dal linguaggio usato in altri paesi in cui il fenomeno stesso da tempo è oggetto di studi particolari”.
“Qualora da un siffatto comportamento derivi un pregiudizio per il lavoratore, implicante lesione del bene primario
della salute o integrante quel tipo di nocumento che dalla dottrina e dalla giurisprudenza viene definito biologico,
evidente è la responsabilità del datore di lavoro purché sia accertata l’esistenza di un nesso causale tra il suddetto
comportamento doloso o colposo e il pregiudizio che ne deriva. La prova degli elementi essenziali della fattispecie
indicata (esclusa ovviamente la dimostrazione del dolo o della colpa vertendosi in materia di responsabilità
contrattuale) deve peraltro essere fornita dal lavoratore. Di tal che pur non potendosi escludere che il reperimento
delle varie fonti di prova possa risultare particolarmente difficoltoso a cause di eventuali sacche di omertà, sempre
presenti, o per altre ragioni, tuttavia non è chi non veda che la mancata acquisizione della prova in questione,
riguardo alle cause che hanno determinato la lesione dedotta e gli effetti asseritamente derivati, impedisce al
giudice l’accoglimento della domanda”
La sentenza – è bene precisarlo – non riguarda un caso di mobbing esaminato dal Giudice di legittimità: ha avuto
invece ad oggetto il licenziamento del dipendente che aveva accusato di mobbing la propria azienda. La Suprema
Corte ha posto in evidenza come l’accusa di mobbing deve essere provato dal lavoratore, il quale in caso contrario
dovrà subire le conseguenze delle sue affermazioni potendo essere esposto al licenziamento irrogato da parte della
società e che la Cassazione ha qualificato come motivo legittimo di risoluzione del rapporto, pur sottolineando che
la prova del mobbing presenti particolari difficoltà proprio a causa di eventuali sacche di omertà e, sarebbe il caso
di aggiungere, della stessa collaborazione nella determinazione del mobbing da parte di alcuni colleghi.
Va però evidenziata l’importanza della sentenza in quanto – questa volta da parte del giudice di legittimità – si
ritrova una definizione di mobbing che ne evidenzia le caratteristiche nell’aggressione dell’ altrui sfera giuridica,
requisito questo certo importante ma non ancora qualificante, a parere di chi scrive, della fattispecie secondo le
indicazioni provenienti dagli studiosi della questione.
Si resta pertanto in attesa di ulteriori contributi che possano giungere dalla giurisprudenza nella definizione il più
possibile precisa del fenomeno e nel timore che il legislatore possa varare una legge non sufficientemente meditata
a causa della ancora pressochè inesistente casistica giurisprudenziale in materia.
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2) LA DEFINIZIONE DELLA FATTISPECIE GIURIDICA: GLI ATTI E COMPORTAMENTI
GIURIDICAMENTE RILEVANTI E QUALIFICABILI COME CONDOTTA DI MOBBING Relatore: Avv. Antonio Caccamo Studio Associato Legale Tributario
FONTE: Guida al lavoro – Il sole 24 ore-
http://www.guidaallavoro.it/lavoro/redazione/mobbing/Caccamo_Relazione.html
1. Premessa
Nella sua esauriente relazione, il professor Gilioli ci ha appena aiutato a comprendere che cosa sia effettivamente il
mobbing e quanto gravi e devastanti ne siano gli effetti. Proprio in considerazione della sua potenziale lesività, la
conoscenza del mobbing è diventata ormai necessaria non solo per il giuslavorista e per il professionista del lavoro
ma anche per l’imprenditore e per tutti i soggetti che, all’interno dell’organizzazione dell’impresa, devono gestire le
problematiche connesse al contesto interpersonale nell’ambiente lavorativo. Del mobbing devono, infatti, essere
costantemente tenute presenti le conseguenze negative (sia per il lavoratore e la sua famiglia sia per l’impresa
stessa e per la società civile in genere) ed, in particolare, i possibili effetti giuridici.
A tal fine, è però preliminarmente necessario chiarire quali sono i comportamenti riconducibili al mobbing. Nel
nostro Paese, sebbene le proposte di disciplina legislativa, come vedremo nel nostro secondo intervento, non
manchino, non esiste a tutt’oggi una normativa che regoli questa fattispecie unitariamente considerata. Di
conseguenza, dobbiamo ricercare singolarmente nell’ordinamento le condotte che sono riconducibili al mobbing,
avvalendoci delle norme già esistenti e delle decisioni giurisprudenziali.
Come già emerso dalle ricostruzioni effettuate nel campo della sociologia, psicologia e medicina del lavoro,
nell’ambito dell’organizzazione aziendale il termine mobbing è associato propriamente alle diverse molestie e
pratiche di vessazione, persecuzione, ritorsione e violenza psicologica messe in atto deliberatamente e
ripetutamente nel tempo dal datore di lavoro o dai superiori, ma anche da colleghi di pari livello o subalterni,
nei confronti di un soggetto designato, tali da porlo in una condizione di estremo disagio caratterizzata da
isolamento e terrore psicologico, che può danneggiarne l’equilibrio psico-fisico anche fino a
comprometterlo gravemente. Queste pratiche possono essere compiute da uno o più soggetti (cd. mobber),
sempre al fine intenzionale di danneggiare qualcuno (il cd. “mobbizzato”), spesso con la messa in opera di vere
strategie dirette alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. Scopo del mobbing è generalmente
quello di eliminare una persona che è, o è divenuta, scomoda, creando le condizioni per legittimarne il
licenziamento o inducendola alle dimissioni.
Così, possono essere ricomprese in questo fenomeno azioni che spaziano dalla semplice emarginazione alla
diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla sistematica persecuzione, dall’assegnazione di compiti
dequalificanti, privi di interesse e valore od umilianti all’impedimento dello svolgimento del lavoro, alle ritorsioni sulle
possibilità di carriera, allo scarso riconoscimento alla qualità del lavoro svolto ed alla compromissione dell’immagine
nei confronti di clienti e colleghi, fino al sabotaggio del lavoro svolto e a vere e proprie azioni illegali.
L’interesse in materia si è generalizzato in Italia in quest’ultimo biennio, con la pubblicazione di studi dottrinali ed
articoli su quotidiani e periodici, l’organizzazione di convegni e seminari, la costituzione di centri di informazione e
tutela dei lavoratori, la presentazione – o la rinnovata attenzione nell’iter di discussione parlamentare – di vari
progetti e disegni di legge ed, infine, l’emanazione delle prime sentenze che hanno trattato condotte
espressamente qualificate come mobbing (Tribunale di Torino, 16 novembre 1999 e 30 dicembre 1999; inoltre, ma
solo come obiter dictum senza pronunciarsi direttamente su di esso, Cassazione, 8 gennaio 2000, n. 143).
Ma risulta subito evidente che, sebbene di mobbing si parli in Italia solo da tempi recenti, i vari tipi di
comportamenti che vengono ora complessivamente ricondotti ad esso integrano sovente fattispecie
giuridiche già definite dal legislatore o dalla giurisprudenza e che già trovano, quindi, una disciplina loro
applicabile all’interno dell’ordinamento italiano.
Così, rinviando al nostro secondo intervento di oggi per quanto riguarda l’approfondimento del quadro normativo di
riferimento, è possibile ora fornire sia l’illustrazione degli elementi che individuano il mobbing nelle due pronunce
giurisprudenziali che lo hanno trattato direttamente sinora, sia un primo elenco esemplificativo delle
singole fattispecie che sono già sanzionate in conformità dell’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
2. La definizione della fattispecie “mobbing” nelle sentenze del Tribunale di Torino
Le due sentenze del Tribunale di Torino, redatte entrambe dal giudice Ciocchetti, rivestono peculiare importanza
per aver deciso espressamente sul “mobbing” unitariamente inteso, fornendo ricostruzioni giuridiche dalle quali è
possibile trarre elementi utili per la definizione stessa della fattispecie, e che sono analoghe in tutte e due le
pronunce.
Innanzitutto, si riscontra la rilevanza sistematica di un riconoscimento giurisprudenziale del mobbing,
quale fattispecie specifica, seppur, almeno finora, non definita e tipizzata dal legislatore. In entrambe le
sentenze, il Tribunale ha ritenuto necessario, prima ancora di entrare nell’esame della causa, dedicare un
apposito paragrafo al mobbing, in quanto “doverosa premessa, assolutamente indispensabile al fine di
inquadrare correttamente le problematiche di causa nel contesto lavorativo e nel sistema di relazioni
endo-aziendali attualmente esistenti,” che “conoscono e registrano con una certa frequenza pratiche di violenza
morale e terrorismo nei posti di lavoro”.
Oltretutto, il giudice ha considerato il mobbing nell’ambito del fatto notorio, menzionandone l’individuazione
all’interno degli studi effettuati, in particolare, in campo psicologico, medico e sociologico, quale grave e reiterata
distorsione all’interno dell’organizzazione del lavoro, in grado di “incidere pesantemente sulla salute
individuale”. Secondo il giudice, tale identificazione, congiuntamente alle rilevazioni statistiche relative, ha reso il
mobbing un “fenomeno ormai internazionalmente noto” ed ha evidenziato le sue “proporzioni senza dubbio
rilevanti”.
Dopo aver spiegato il significato della parola inglese e fatto riferimento, corentemente a quanto evidenziato dai
sopramenzionati studi, al comportamento animale, il giudice si esprime nei seguenti termini: “Spesso nelle aziende
accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in
particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei
casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore,
menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e
talora persino suicidio.”
Dal periodo appena considerato sembra emergere che debbano essere considerate necessarie, ai fini
dell’integrazione della fattispecie “mobbing,” la direzione delle condotte verso un fine specifico (quale l’isolare
o l’espellere il lavoratore) e la loro ripetitività, restando quindi esclusi i comportamenti sporadici e non sistematici,
che evidentemente non rivelano un’intenzionale e predeterminata pressione psicologica e morale sul lavoratore.
Riguardo a questi requisiti, tale nozione di mobbing corrisponde, quindi, a quella già fornita dagli studi sociologici,
medici e psicologici.
In presenza degli elementi appena menzionati, risulta essere sufficiente che il comportamento attivo di
persecuzione sia tenuto anche da un solo soggetto, non rendendosi quindi necessario un comportamento
collettivo.
Infine, non deve essere tralasciato il fatto che il giudice si riferisce solo a comportamenti tenuti dai superiori,
preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti. In nessuna parte della sentenza è fatto cenno alla
configurabilità del mobbing anche in caso di condotte persecutorie operate tra colleghi di pari livello, o da
lavoratori in posizione gerarchica inferiore nei confronti di superiori, mentre una definizione estensiva che
comprende anche tali comportamenti emerge dalle definizioni fornite dagli studi medici, psicologici e sociologici.
Tuttavia, ciò conduce meramente a constatare che non sono ancora emerse soluzioni in giurisprudenza in merito
alla delimitazione della fattispecie del mobbing sotto questo profilo, poiché casi di condotte vessatorie tenute da
pari grado o subalterni non sono stati sinora sottoposti al giudice.
3. I comportamenti riconducibili al mobbing
Come già evidenziato, in giurisprudenza, anche indipendentemente dal problema della configurabilità della
fattispecie unitaria “mobbing”, si sono già formati orientamenti consolidati riguardanti la sanzionabilità delle singole
fattispecie che ad esso possono ora essere ricondotte.
Illustreremo qui di seguito tali fattispecie, ricordando doverosamente che, affinché si realizzino condotte di
mobbing, è necessario che gli specifici comportamenti siano ripetuti nel tempo e preordinati al
raggiungimento dello scopo di danneggiare il lavoratore.
Inoltre, avremo l’opportunità in quest’ambito di esporre quali sono state in concreto le specifiche condotte che
hanno formato, nell’insieme, le fattispecie di mobbing accertate dalle sentenze del Tribunale di Torino.
3.1. Comportamenti di molestia sessuale
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 143 dell’8 gennaio 2000, è tornata a trattare della configurabilità di
inadempimento contrattuale del datore di lavoro in caso di molestie sessuali sul luogo di lavoro, sebbene come
obiter dictum nell’ambito di una decisione che si è poi concentrata su altri aspetti.
Secondo la Corte, le molestie sessuali, sia poste in essere dal datore di lavoro sia dai suoi stretti
collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere gerarchico, “costituiscono uno dei
comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza,
l’integrità psico-fisica dei prestatori d’opera subordinati” e, come già riconosciuto dalla sua precedente
giurisprudenza, fanno sorgere per il datore di lavoro “una vera e propria responsabilità contrattuale” per
l’inadempimento dell’obbligo posto a suo carico dall’art. 2087 c.c., che ricomprende anche il divieto di “atti
integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori.”
3.2. Dequalificazione, demansionamento e mancato riconoscimento dei diritti derivanti dalla qualifica del
lavoratore
Come già evidenziato dagli studi psicologici, medici e sociologici più volte richiamati, spesso le pratiche di mobbing
colpiscono la professionalità del lavoratore: ciò accade in tutti i casi in cui gli venga impedito il normale e completo
svolgimento delle mansioni di competenza, oppure il dipendente sia in altro modo mortificato nelle sue capacità ed
aspettative professionali.
I casi illegittimi di dequalificazione, demansionamento ovvero svuotamento di mansioni e riduzione all’inattività,
nonché quelli di mancato riconoscimento dei diritti derivanti dalla qualifica del lavoratore, operati dal datore di
lavoro, violano l’art. 2103 c.c., e, oltre a poter causare danno alla salute del lavoratore, fanno sorgere per il
datore l’obbligo di reintegrare il dipendente nelle mansioni spettantigli e di risarcirgli, nel caso venga accertato, il
danno patrimoniale alla professionalità globalmente intesa (anche con riguardo all’immagine professionale ed ai
suoi riflessi sul valore del dipendente sul mercato del lavoro, al pregiudizio delle future potenzialità del lavoratore
ed alle sue prospettive di carriera nell’impresa stessa e nelle altre presso le quali potrebbe trovare impiego). In
giurisprudenza è riconosciuta la liquidabilità di questo danno in via equitativa ex art. 1226 c.c., commisurandolo
spesso alla retribuzione ed alla durata del demansionamento.
A rafforzamento e conferma di quanto appena esposto si pone la sentenza del Tribunale di Torino 30 dicembre
1999, che, come accennato, ha trattato e sanzionato espressamente un caso di “mobbing.”
Nella fattispecie concreta che, secondo il Tribunale, ha integrato il mobbing, è compresa infatti una condotta di
dequalificazione da parte del datore di lavoro in violazione dell’art. 2103 c.c., relativamente alla quale è stato
liquidato equitativamente il danno alla professionalità (la dequalificazione era associata anche a motivazioni
ritorsive ed al precedente invito alla dipendente a rassegnare le dimissioni come alternativa per evitare il
mutamento dell’incarico, nonché all’assunzione di altra lavoratrice con inquadramento identico e mansioni in buona
parte analoghe).
3.3. Esercizio illegittimo reiterato del potere gerarchico del datore di lavoro, comportamenti persecutori e
atti ritorsivi o discriminatori
Sanzione specifica trovano in giurisprudenza anche diversi tipi di comportamenti persecutori operati dal datore di
lavoro. In epoca recente, la Corte di Cassazione ha ritenuto, ad esempio, “comportamento illegittimo persecutorio”
del datore l’aver richiesto ripetutamente all’Inps di effettuare le visite mediche domiciliari di controllo dello stato di
malattia del dipendente, quando tale stato era stato certificato dal medico curante e già accertato dai precedenti
controlli sanitari, ed ha riconosciuto al lavoratore il risarcimento del danno conseguente all’aggravamento della
malattia, originato proprio dalla condotta datoriale.
Inoltre, deve essere sempre tenuto presente il principio secondo il quale gli atti del datore di lavoro incidenti sulla
posizione del lavoratore (licenziamenti, trasferimenti, assegnazione di mansioni, valutazioni concernenti le note di
qualifica) non possono essere determinati da intenti discriminatori, di ritorsione o punitivi e da motivi irragionevoli
ed illeciti, anche in considerazione degli obblighi di correttezza e buona fede.
La giurisprudenza ha in alcuni casi ritenuto di riconoscere la possibilità di utilizzare un approccio di
valutazione complessiva dei comportamenti reiterati, approccio del quale è immediatamente intuibile
l’importanza relativamente ai comportamenti di mobbing (che per definizione sono ripetuti in un arco di tempo).
Nelle pronunce del Tribunale di Torino sul mobbing, coerentemente al quadro delineato sono stati sanzionati
anche comportamenti ascrivibili a quelli qui appena individuati: nella sentenza del 16 novembre 1999 le condotte
del superiore gerarchico, consistenti nell’adibire continuativamente la lavoratrice a prestare il proprio lavoro in un
luogo angusto (ed al maltrattarla con comportamenti illeciti ed ingiuriosi), sono state definite dal giudice “gravi
atti di persecuzione.”
Nella sentenza del 30 dicembre 1999, il comportamento datoriale consistente nell’invitare la lavoratrice a
rassegnare le dimissioni, pena il trasferimento ad altro incarico (poi avvenuto e rivelatosi dequalificante ed
immotivato), è ricondotto a motivazioni ritorsive, legate alla condotta del convivente della lavoratrice, ex
dipendente dello stesso datore di lavoro.
3.4. Pretese sproporzionate poste nei confronti del lavoratore
La giurisprudenza ha anche già considerato le scelte organizzative del lavoro, considerando un inadempimento
dell’art. 2087 c.c. la richiesta di un impegno eccessivo del lavoratore, cui sia assegnato o non sia impedita la
distribuzione di un carico troppo esteso di lavoro, tale da eccedere la normale tollerabilità secondo le regole di
comune esperienza, oppure un carico sproporzionato di lavoro usurante. Recentemente, la Corte di Cassazione,
con sentenza 5 febbraio 2000, n. 1307, ha confermato la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. per
aver sottoposto il lavoratore per un lungo periodo ad un’attività lavorativa estenuante, dovuta alla sproporzione
tra la quantità di lavoro prevista ed il personale addetto al suo compimento. La Corte, richiamando la sua
precedente giurisprudenza, ha ribadito che tale responsabilità contrattuale nasce dalla combinazione dell’art. 2087
c.c. e dell’art. 32 Cost. con l’inosservanza dell’obbligo preesistente del datore di lavoro ex art. 41 Cost., e che tra
le misure che il datore di lavoro deve porre in essere in base a quest’ultimo precetto costituzionale sono anche
ricomprese quelle (quali l’adeguamento dell’organico) intese ad evitare eccessività di impegno da parte di un
soggetto che è in condizioni di subordinazione socio-economica (quindi anche nel caso in cui il lavoratore stesso
sia disposto a farsi carico della sproporzionata mole di lavoro), al fine di impedire l’insorgere o l’ulteriore deteriorarsi
di situazioni patologiche.
Tutti i casi di mobbing in cui, anche solo indirettamente come conseguenza della “presa di mira” del dipendente, gli
fossero attribuiti compiti troppo gravosi, rientrerebbero in questa fattispecie.
3.5. Comportamenti ingiuriosi
Nel caso in cui siano poste in essere nei confronti del lavoratore delle condotte ingiuriose, la giurisprudenza ha
riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro ed ha ritenuto risarcibili il danno morale (configurabile ex art.
2059 c.c. nel caso in cui sia integrato il reato – nella specie, di ingiuria, art. 594 c.p.), il danno patrimoniale ed
anche quello biologico.
Particolarmente, nel caso in cui il lavoratore aveva subito ripetute ingiurie e mortificazioni dal direttore generale,
integranti un comportamento delittuoso, che avevano, quale conseguenza diretta, recato danni alla sua integrità
fisica e morale, è stata riconosciuta la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. In altri casi è stata
ravvisata la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. Sono numerose le decisioni giurisprudenziali che
hanno riconosciuto la risarcibilità di tali danni in caso di licenziamento ingiurioso.
Infine, conferma di questa impostazione è data da Tribunale di Torino, 16 novembre 1999, che ha sanzionato
come mobbing una fattispecie comprensiva dei ripetuti comportamenti ingiuriosi tenuto nei confronti della
lavoratrice dal suo capo turno.
4. Tutela del lavoratore e dimissioni
Nell’ambito della tutela attuale del lavoratore relativamente alle condotte di mobbing, deve essere ricordato che i
comportamenti vessatori possono determinare in concreto il diritto del lavoratore di proporre azioni legali e di
recedere dal rapporto per giusta causa con richiesta del pagamento dell’indennità di preavviso e del risarcimento
del danno, in seguito alla scelta di non proseguire un rapporto di lavoro che si svolge in un ambiente dove i
rapporti umani sono ormai distorti e nella consapevolezza che vi sono dei responsabili chiamati a rispondere per le
condotte lesive.
Completamente diverso è tuttavia il caso in cui il lavoratore che subisce il mobbing decida di dimettersi
senza alcuna reale autonomia. Ciò succede sia quando le dimissioni sono rese in un momento di alterazione tale
da costituire un temporaneo stato di incapacità, sia quando sono conseguenza di profonda esasperazione dovuta
alle continue vessazioni o minacce. In questi casi, il dipendente si dimette senza addurre giusta causa e, quindi,
senza chiedere alcun risarcimento né l’indennità di preavviso. Del resto, come già chiarito, spesso le condotte di
mobbing attuate direttamente dal datore (o dai suoi preposti), oppure con la sua connivenza, sono preordinate
proprio ad indurre il lavoratore indesiderato a recedere dal rapporto di lavoro, evitando così l’applicazione della
disciplina ed il controllo sul licenziamento
(questo sembra essere accaduto nella fattispecie di “mobbing” sanzionata dalla sentenza del Tribunale di Torino,
30 dicembre 1999: il datore di lavoro aveva invitato la dipendente a presentare le proprie dimissioni paventando
come alternativa il suo trasferimento ad altro incarico).
Nel caso in cui il lavoratore abbia rassegnato le dimissioni in seguito alla condotta di mobbing, potrà ottenere
l’annullamento delle dimissioni solamente se saranno riscontrati i presupposti dell’incapacità naturale ex art. 428
c.c. o del vizio della volontà dato dalla violenza morale ex art. 1434 c.c., anche nella forma di minaccia illegittima
di far valere un diritto (generalmente, il licenziamento) per condizionare la volontà del lavoratore ed ottenere un
vantaggio ingiusto (art. 1438 c.c.), vale a dire un effetto abnorme e diverso rispetto a quello raggiungibile con
l’esercizio del diritto.
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1/bis) DEFINIZIONE DELLA NOZIONE DI MOBBING NEL CAMPO CLINICO-EPIDEMIOLOGICO
Relatore: Prof. Renato Gilioli
Centro per il Disadattamento Lavorativo
Clinica del Lavoro “L. Devoto”
Istituti Clinici di Perfezionamento – Milano
Fonte: Guida al lavoro – Il sole 24 ore) – http://www.guidaallavoro.it/lavoro/redazione/mobbing/Gilioli_sintesi.html
Sintesi della relazione presentata
Premessa
Accanto ai rischi tradizionali (chimici, fisici e biologici) per la salute dei lavoratori, i rischi psicosociali stanno
diventando una delle principali cause di alterazioni della salute sul posto di lavoro. Tra questi il “rischio relazionale”
o “interpersonale” si è posto all’attenzione del medico del lavoro solo di recente, in maniera progressivamente
crescente. In anni recenti, il mobbing è in incremento per motivazioni di carattere macroeconomico
(mondializzazione, grandi merger internazionali, fusioni, ecc.)
Le indagini scientifiche su questo tema sono per ora scarse e non esaustive anche a livello internazionale e
condotte su popolazioni con scarsa numerosità. Il tema d’altronde pare rivestire carattere di patologia sociale
dilagante se si considerano le statistiche dell’”European Foundation for the Improvement of Living and Working
Conditions”, un’istituzione dell’Unione Europea, secondo la quale in Italia la prevalenza del fenomeno tra i lavoratori
è del 4.2%, ossia ca. 800.000-1.000.000 di persone (anno ‘96-’97).
Una ricerca recente condotta da istituzioni bancarie ha rilevato in quest’area, prevalenze molto più elevate
dell’ordine del 18% (anno 2000).
Di particolare rilevanza sono le conseguenze sulla salute riscontrate dopo un periodo variabile di esposizione alla
situazione di mobbing e che si manifestano principalmente a carico della sfera neuropsichica ma secondariamente
con importanti ricadute psicosomatiche e fisiche.
E’ pertanto assai opportuno un accordo tra le sedi competenti che, oltre al riconoscimento della rilevanza del
fenomeno, sviluppi delle linee guida per la gestione complessiva del fenomeno mobbing, comprendente gli aspetti
clinico-diagnostici, terapeutici, riabilitativi e preventivi.
La portata e l’importanza delle conseguenze hanno già esteso la preoccupazione al settore legale sia in tema di
giurisprudenza (vedi le due sentenze del Tribunale del Lavoro di Torino, 1999) che legislativo (vedi le sei proposte
di legge presentate in Parlamento).
Definizione
Il mobbing è comunemente definito come una forma di molestia o violenza psicologica, ripetuta in modo iterativo,
con modalità polimorfe, con caratteri di intenzionalità, per un tempo determinato, arbitrariamente stabilito in sei
mesi ma con ampia variabilità dipendente dalle modalità e dalla struttura di personalità dei soggetti. La violenza
morale è esercitata mediante attacchi contro la persona del lavoratore, il lavoro svolto, la funzione lavorativa
ricoperta e, infine, lo status del lavoratore, da un singolo, generalmente un superiore o, più raramente, da un
gruppo di colleghi.
La persona del lavoratore viene continuamente umiliata, offesa, isolata e ridicolizzata anche per quanto riguarda la
vita privata, il suo lavoro deprezzato, continuamente criticato o addirittura sabotato, il ruolo declassato e il suo
lavoro svuotato di contenuti e privato degli strumenti (sindrome della scrivania vuota), le capacità messe in
discussione. Infine, sono esercitate continue azioni sanzionatorie, spesso pretestuose, mediante uso eccessivo di
visite fiscali o di idoneità, di contestazioni disciplinari, di trasferimenti in sedi lontane, di rifiuto di permessi e/o ferie
e trasferimenti. Si distingue un mobbing strategico che corrisponde ad un preciso disegno di esclusione di un
lavoratore e di mobbing emozionale quando, invece, deriva da un’esaltazione dei comuni sentimenti di ciascun
individuo (rivalità, gelosia, antipatia, diffidenza, paura, ecc.).
Bersagli
Ogni lavoratore, indipendentemente dalle sue caratteristiche di personalità, può essere oggetto di molestie morali.
Tuttavia alcune caratteristiche personologiche o situazionali, possono favorirne l’insorgenza o la diffusione. I
bersagli sono spesso lavoratori con elevato coinvolgimento nell’attività svolta, o con capacità innovative e
creative; spesso, all’opposto, si tratta di soggetti con ridotte capacità lavorative o diversi per diversi tratti
culturali (provenienza geografica, religione, abitudini di vita, preferenze sessuali).
Conseguenze sulla salute
I primi effetti delle situazioni di mobbing sono osservati sulla salute che quasi inevitabilmente, dopo un intervallo
variabile, si altera con manifestazioni della sfera neuropsichica. Precoci sono i segnali di allarme psicosomatico
(cefalea, gastroenteralgie, dolori osteoarticolari, mialgie, disturbi dell’equilibrio), emozionale (ansia, tensione,
disturbi del sonno, dell’umore), comportamentale (anoressia, bulimia, potus, farmacodipendenza). Se lo stimolo
avverso è duraturo, i sintomi descritti possono organizzarsi nei due quadri sindromici principali che rappresentano le
risposte psichiatriche a situazioni esogene: il disturbo dell’adattamento ed il disturbo post-traumatico da stress.
Nell’esperienza della Clinica del Lavoro di Milano il disturbo dell’adattamento, che si manifesta il più delle volte con
sintomi depressivo ansiosi e somatoformi, è largamente prevalente (oltre i 2/3 dei casi con caratteristiche di
attendibilità), mentre il disturbo post-traumatico da stress (stessi sintomi del disturbo dell’adattamento ma più
gravi e con possibilità di sequele associato a intrusività del pensiero, comportamenti di evitamento e blocco dell’io)
rappresenta un evento meno frequente.
Circa un terzo della casistica totale è costituito da casi di patologia psichiatrica comune o di patologia fittizia.
Conseguenze sociali
Le conseguenze sociali possono essere devastanti in quanto la persistenza dei disturbi psicofisici porta ad assenze
dal lavoro sempre più prolungate, fino alle dimissioni o al licenziamento. La perdita dell’autostima e del ruolo sociale
comportano difficoltà o, per le fasce d’età più alte, l’impossibilità di nuovi inserimenti lavorativi. Il soggetto porta
all’interno dell’ambito familiare il suo stato di grave disagio e non sono rari i casi di separazione e divorzi, disturbi
nello sviluppo psicofisico dei figli e disturbo nelle relazioni sociali.
I costi del mobbing non riguardano solo gli aspetti individuali ma si riflettono più generalmente a livello aziendale, in
termini di ore lavorative perse e scadimento della qualità del lavoro, della produttività e, a livello della collettività,
con aumento dei pre-pensionamenti, delle invalidità civili e della spesa sanitaria.
Diagnosi
La diagnosi delle situazioni lavorative di mobbing e delle malattie mobbing-correlate è particolarmente critica per i
seguenti motivi:
1.la fonte precipua d’informazione è rappresentata solo dalla raccolta anamnestica diretta;
2.la possibilità di verifica di questi dati è scarsa in quanto solitamente la collaborazione dell’ambiente di lavoro
è carente.
Le citate difficoltà devono essere affrontate con una strategia ad ampio raggio che non esclude la possibilità di
falsi positivi ma che ne può ridurre la frequenza mediante una rigorosa osservanza dei seguenti punti:
dichiarazione autocertificata della situazione di lavoro da parte del soggetto
identificazione del livello di attendibilità del paziente ed esclusione di un possibile disturbo fittizio
identificazione di un disturbo psichiatrico comune
identificazione delle caratteristiche e/o comportamenti che definiscono la situazione di mobbing
definizione del quadro clinico e della sua compatibilità con le sindromi mobbing-correlate.
Gli strumenti necessari a soddisfare questi criteri sono:
la specifica preparazione alla conduzione di colloqui psicologico-psichiatrici mirati
l’impiego di strumenti di rilevazione della situazione di mobbing validi e sensibili
l’impiego di metodi psicodiagnostici validi e sensibili
effettuazione di diagnosi sindromica.
Sulla base dei requisiti e degli strumenti sopra elencati ed indispensabili per arrivare ad una diagnosi
sufficientemente affidabile, anche i due inquadramenti di disturbo dell’adattamento (DDA) e di disturbo post
traumatico da stress (DPTS) dovranno essere meglio identificati in base al ruolo svolto dai fattori occupazionali sui
disturbi accusati.
La differenziazione suggerita è la seguente:
DDA insituazione occupazionale vissuta come avversativa
DDA compatibile con situazione anamnesticamente avversativa
DDA in situazione occupazionale stressogena
DDA in situazione occupazionale con aspetti avversativi
DPTS con prevalente componente occupazionale
DPTS occupazionale
Ruolo del medico del lavoro
La gestione del fenomeno mobbing è tipicamente polidisciplinare in quanto si basa su competenze sociologiche,
psicologiche, mediche e legali.
A livello assistenziale il ruolo del medico del lavoro, dello psichiatra e dello psicologo sono interdipendenti e devono
pertanto essere integrati in una struttura funzionale unitaria: è questa la condizione ottimale, di non agevole
realizzazione pratica, per la gestione di un fenomeno di tale complessità.
A livello preventivo, a parte le responsabilità dei responsabili dei servizi delle risorse umane, il cui ruolo esula da
questa trattazione, il medico del lavoro deve svolgere un
ruolo primario di riferimento per il lavoratore che ritiene di essere vittima di mobbing. Questo ruolo d’altronde non
solo non contrasta, ma è previsto dall’attuale legislazione del lavoro (DL 626/94).
Bibliografia
1.Atti dei Convegni Milano-Roma, 1999, in pubblicazione
2.Cassitto M.G. Mobbing e Disturbi Emozionali. In Atti del Convegno “Mobbing” UIL Milano, 31 Gennaio 2000
3.Cassitto M.G. Antisocial Behaviors at Work: Definition, Processes, Conditions, Characteristics and
Consequences. Homeostasis, 40, 1-2, 7-13, 2000
4.Gilioli A, R. Gilioli. Cattivi Capi, Cattivi Colleghi. Mondadori, 2000
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IL BENE GIURIDICO LESO: L’INTEGRITA’ PSICO-FISICA DEL LAVORATORE E IL DANNO BIOLOGICO. QUALE RISARCIBILITA’: COME DANNO PSICHICO, DANNO ESISTENZIALE E ANCHE TECNOPATIA? – Avv. Lino Greco
Fonte: http://www.guidaallavoro.it/lavoro/redazione/mobbing/Greco_Relazione.html
Nel nostro Ordinamento e nella Costituzione (art.32) la salute, allorquando subisce a causa di “vulnera” la lesione
dell’integrità del corpo e della mente (psiche), è tutelata quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività, pertanto quale “diritto inviolabile” (art. 2 Cost.), in quanto “bene giuridico particolarmente protetto”.
Anche in altri ordinamenti di Stati Europei la vita e la salute appaiono tra i valori esplicitamente protetti, tra cui “i
beni giuridici “del codice civile tedesco (par.823-Bgb), la tutela dei diversi tipi di danni regolamentati dal codice
civile austriaco, ed i valori insiti nelle clausole di responsabilità civile per fatti illeciti del codice civile francese.
Il contributo, con la “svolta” impressa dalla sentenza n.184 del 1986 della Corte Costituzionale con l’introduzione
della figura del danno biologico (o alla salute), in sé risarcibile quale danno ingiusto (ex art.2043 del codice civile =
principio del “neminem laedere”), oltrechè, ancor prima, dalle sentenze n.87 e n.88 del 1979, di seguito ed in
relazione alla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (L.833/1978), è risultato quantomai incisivo riguardo
alla definizione della salute non solo quale fondamentale diritto dell’individuo, ma anche come interesse della
collettività, per ciò meritevole di particolare tutela.
La tutela della salute implica, come si evince dalla Costituzione Italiana (e come insegnano la dottrina e la
giurisprudenza formatesi nel corso dell’ultimo decennio), la tutela della famiglia, del lavoro e della comunità sociale,
e comporta una particolare attenzione e l’impegno costante da parte degli operatori del diritto, influendo anche
sulle scelte di governo (vedasi l’ultimo esempio del decaduto decreto legge n. 70 del 28/3/2000, il cui contenuto,
peraltro autoritariamente, aveva inopinatamente provveduto alla svalutazione del “valore uomo”, spossessando il
Parlamento e la magistratura delle loro prerogative istituzionali), allorquando il bene giuridico-salute viene
minacciato, negato o disatteso.
Compito di questo Convegno, cui ho l’onore di partecipare come relatore, non è quello di inventare nuovi
diritti, bensì di far risaltare diritti di cui la persona umana è titolare da sempre.
Uno di questi diritti è la tutela della salute e la sua risarcibilità quale danno biologico.
Il danno psichico, che è oggetto del tema da me affrontato quale conseguenza del mobbing sul lavoro, è un aspetto
ed una forma particolare del danno biologico, che ha avuto ingresso nel nostro Ordinamento in modo significativo,
specie se lo si raffronta alla vigente legislazione europea.
Basti pensare che nel diritto tedesco, notoriamente “a sistema chiuso”, mentre, da una parte il danno biologico non
è riconosciuto, dall’altra sussiste l’obbligo del risarcimento del danno psichico quale conseguenza di una lesione
corporea per danni causati da disturbi nevrotici del comportamento determinati da un incidente o da shock
limitatamente a casi particolari.
Ma, il danno psichico è tornato di moda, come fenomeno medico-legale, dato il notevole aumento dei casi, o è solo
questione di maggior sensibilità?
Si era posto il medesimo quesito il Dott. Raffaele Castiglioni, medico legale e psichiatra, già nel suo articolo
apparso su Tagete – Rivista Medico-Giuridica (n.2 Maggio 1999).
Di sicuro, egli rilevava, è aumentata “l’osservazione”, rispetto ad un tempo, e numerosissimi sono diventati i
postumi di natura psichica non più e non solo riconducibili ai traumi al capo (menomazione fisica dello stesso
soggetto) od alla perdita o lesioni gravi di un congiunto (menomazione fisica inferta da altri), ma anche ad
altre ragioni o cause.
Analogamente, sul tema “Danno psichico: l’altra faccia della luna”, il Prof. Antonio Marigliano in Tagete – Rivista
Medico-Giuridica (n.2 Giugno 2000), nel mettere in guardia dalle tensioni esplorative di coloro che, spinti dal
bisogno, cercano di sfruttare una nuova possibilità di arricchimento. Ancorpiù, il concetto di danno psichico viene
illustrato e definito quale danno biologico dallo stesso esimio medico legale e psichiatra, in unione con il Prof.
Brondolo, in “Il danno da menomazione psichica” – Aggiornamento Prof.le n.26, dal libro “La nuova frontiera del
danno risarcibile”.
Il “mobbing”, quale fenomeno negativo dei luoghi di lavoro, rientra tra le cause anzidette.
E’ però indispensabile che questa nuova fattispecie di danno (il danno psichico) venga accertata e
valutata correttamente da psichiatri clinici e medici legali, o da psichiatri forensi, allo scopo di costituire
una metodologia di ricerca, e di ridurre al minimo l’arbitrio della soggettività e della non competenza,
secondo una precisa e riconosciuta metodologia scientifica ed in considerazione del valore economico di tale tipo di
danno biologico, che ha un costo sociale la cui regolamentazione a livello governativo non può vedere estranei
coloro che sono competenti in materia, e secondo la classificazione internazionale attualmente più diffusa,
rappresentata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM – IV dell’American Psychiatric
Association – 1994) e così pure come si rileva in “Criteri diagnostici in Psichiatria” del Prof. F. Borsetto e del Dott.
S. Bellino, del Dipartimento di Neuroscienza, Università degli Studi di Torino (Tagete nr. cit. 2/2000, pg 45).
Danno psichico e mobbing sono due concetti che vanno di pari passo: si può affermare, con fondatezza, che il mobbing
– come violazione dell’integrità psichica di cui all’art.2087 del codice civile, nell’ambito delle patologie proprie del mondo del
lavoro – sta al danno psichico come il rumore sta all’ipoacusia, l’amianto all’asbestosi e il piombo al saturnismo, e così via.
Per questo motivo si può asserire, scientificamente, in virtù del supporto della medicina legale, che il danno
psichico è il tipico danno subito dalla vittima di “mobbing”, campo d’indagine della psicologia, medicina e sociologia
del Lavoro nel corso dell’ultimo quinquennio.
Non si può prescindere, però, a mio avviso, prima di affrontare nello specifico il tema, da una panoramica
sull’evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Cassazione in materia, specie in relazione alle
prospettive europee sul risarcimento del danno alla persona ed alla riforma in corso nel nostro Paese per una
regolamentazione organica di tutta la materia, con particolare riguardo riguardo all’ingresso del concetto di danno
psichico nell’
ambito del danno biologico.
In linea di principio, anzitutto, va ricordato che una prima sperimentale definizione di danno biologico come
“lesione dell’integrità psico-fisica”, suscettibile di valutazione medico-legale della persona, la si riscontra nel
citato e decaduto decreto legge n.70 del 28 marzo 2000 e, ancorprima, nel vigente Decreto Legislativo n.38 del 23
febbraio 2000 per il “riordino dell’INAIL”.
Inoltre, nel disegno di legge n.4903 del Governo presentato nel giugno 1999 al Senato della Repubblica, nell’ambito
della legge finanziaria omnibus, veniva introdotta una importante riforma di modifica del codice civile, in quanto,
nell’art.2056 del codice civile si trova la “nuova definizione di danno biologico” come “lesione dell’integrità
psico-fisica suscettibile di accertamento medico-legale della persona”, risarcibile indipendentemente dalla
sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato, e svincolando così l’art. 2059 del codice
civile (nuovo testo della disciplina del danno morale) dal reato.
E’ certo che il danno psichico è ricompreso sia nella previsione dell’art.2087 del codice civile (nell’ambito del
rapporto di lavoro subordinato) che nell’art. 2043 del codice civile, che è perciò “soggetto alla regola dell’ingiustizia del
danno”, per cui il risarcimento presuppone anche un comportamento “non iure”, e per stabilire l’illiceità di un comportamento
lesivo occorre applicare il criterio “dell’abuso del diritto” ( così G. Cricenti, in “Il danno non patrimoniale ” Cedam –
Enciclopedia 1999, a cura di Paolo Cendon).
E’ pure certo che il danno alla psiche è un danno che impedisce all’individuo il godimento di beni della vita
e l’esercizio delle facoltà ad essi connesse (Castaldi 1997: ” Il danno psichico tra medicina legale e diritto”);
Navarretta 1996: “Diritti inviolabili e risarcimento del danno ” Torino , Giappichelli; Ziviz 1998,: “Il danno non
patrimoniale” in La Resp. Civ. Di Cendon), e che, del danno biologico, rappresenta l’aspetto più delicato e
sfuggente per la difficoltà di analizzare le alterazioni soggettive, al di là di quel che la vittima denuncia o crede, e di
quantificare l’entità del danno stesso.
E ciò anche per la mutevolezza, nel tempo, dei disturbi “psichici”, rendendo a volte difficile pure al medico – legale, sia
l’eziopatogenesi che la distinzione tra “temporaneità” e “permanenza”, e, conseguentemente, pure la loro esatta quantificazione,
non esistendo tabelle e non potendosi adottare, similarmente, quelle dell’invalidità civile, per le diverse finalità delle due
valutazioni ( invalidità civile – postumi invalidanti da fatto illecito), dovendo tenere conto:
a.- della vasta area dei disturbi psichici;
b.- della “preesistenza”, ovvero dello stato anteriore che “espone” di più il soggetto al vulnus, e lo ”
predispone” al disturbo.
Insegna la medicina legale che la psiche non è paragonabile ad un organo e che la sua maggiore vulnerabilità è
frutto di molteplici fattori.
Proprio tale suo “status” consente di meglio applicare il criterio di liquidazione equitativa del danno ex
art. 1226 del codice civile, in caso di difficoltà di quantificazione del danno in sede medico-legale.
E’ il caso di dire che l’ordinamento, in buona sostanza, soccorre la scienza medica.
E’ in ogni caso pregiudiziale, per la risarcibilità del danno biologico di natura psichica a causa di mobbing,
il nesso di causalità tra l’evento (o gli eventi) lesivo e l’insorgenza della sindrome depressiva, nulla
precludendo la preesistenza di una causa efficiente autonoma!
Per quanto concerne il risarcimento del danno in sede civilistica, a prescindere e oltre liquidazione del danno da
inabilità temporanea, la quantificazione del danno avverrà sulla base delle Tabelle del danno biologico
vigenti nel Foro (“molte Tabelle in Italia parlano ormai milanese”, come si è legge nel numero 6 di giugno 2000 di
Guida al Diritto: vedasi, tra le tante, Trib. di Genova sent. 28/9/98 in Foro It., 1999, pg.684), in attesa della
Riforma.
Alla liquidazione del danno biologico di natura psichica, danno-evento, seguiranno (sent. 184 del 1986 della Corte
Costituzionale) il danno morale, il danno esistenziale e il danno a favore dei prossimi congiunti (i c.d. “danni
riflessi”), e, ove sussistente, il danno patrimoniale, quali danni-conseguenza.
Ciò non può valere ora, a partire dal 25 luglio 2000 per il risarcimento del danno a causa di infortuni sul
lavoro e malattie professionali, dovendosi applicare la nuova normativa del D. Lgsvo n. 38 del 23/2/2000
“riordino dell’INAIL”, e del successivo Decreto Ministeriale 12/7/2000, che pongono a carico dello Stato il
risarcimento del danno biologico, come vedremo nella parte finale della relazione.
L’EVOLUZIONE DELLA GIURISPRUDENZA
DELLA CORTE COSTITUZIONALE E DELLA CASSAZIONE
SUL DANNO PSICHICO
Sia la Cassazione che la Corte Costituzionale, nella loro funzione di concorrere alla certezza del diritto l’una, e di
garantire la conformità delle leggi al diritto della Costituzione l’altra, hanno posto congiuntamente negli ultimi anni
alcuni punti fermi, seppur a volte in contrasto tra loro.
Il primo punto fermo è costituito dall’affermazione del principio del “neminem laedere” come immanente nell’Ordinamento
giuridico, quando la lesione attiene ai diritti umani inviolabili, tra i quali vi è la salute (principio presente anche nella Costituzione
Europea, dopo l’istituzione della Unione Europea, art.1, ottavo comma del Trattato dell’Unione come riformato dal Trattato di
Amsterdam).
L’altro punto fermo è che “il risarcimento del danno alla persona deve essere totale”, non parzialmente indennizzatorio e
per tutte le voci di danno, patrimoniale e non patrimoniale.
Ciò, in linea con il legislatore che, nella riforma dell’Inail (di recente introdotta con il D. L.gsvo n. 38 del 23/2/2000
dal titolo “Riordino dell’INAIL”, e nella prossima dell’INPS), e nel progetto di danno alla persona sembra ispirarsi a tale
principio, affermando la natura non patrimoniale e areddituale del danno (art. 13 del D. Lgsvo citato).
Si tratta poi di stabilire, uscendo per un momento dallo stretto ambito dell’applicazione dell’art. 2087 del codice civile,
ovvero dalla casistica di lesioni dell’integrità psico-fisica del lavoratore subordinato, se la Cassazione ha seguito, o non, la
proposta interpretativa della Corte Costituzionale contenuta nella sentenza n.372/94 (la nota sentenza “Mengoni”), ove la
differenziazione tra la lesione della salute fisica e la lesione della salute psichica sembrò divenire massima.
Uno dei precedenti noti riguarda gli inquinati di Seveso, che avevano chiesto il risarcimento del danno morale, per le
sofferenze psichiche ed i patemi d’animo conseguenti a tale inquinamento atmosferico, senza però dedurre, in proprio, le
circostanze personalizzanti, ma operando una sorta di presunzione collettiva di danno. La Cassazione ha rigettato il ricorso dei
danneggiati confermando la decisione d’appello che riformava quella del Tribunale.
La Cassazione richiama la distinzione proposta dalla Consulta, tra danno morale come patema d’animo transeunte e
danno psichico (come psicopatologia permanente) ma si tratta di un “obiter”, forse superfluo.
In altra pronuncia della Suprema Corte (Cass.29/11/1999 N. 13440), mal massimata si rinviene una contestazione
alla proposta della Consulta. Infatti si ammette che: “il danno biologico può sussistere non solo in presenza di
una lesione di postumi permanenti, ma anche in presenza di lesioni che abbiano causato uno stress
psicologico”.
Non a caso il Dr. G.B. Petti, Consigliere di Cassazione, (cui va il merito di avere tradotto il testo della Risoluzione
del Consiglio d’Europa del 14 marzo 1975, di cui ancora di recente la Cassazione ha riaffermato la “valenza
interpretativa”: CASS. Sez.. III, sent. 3170 dell’11/1/1997 e con la quale veniva formulata una proposta degli Stati
Membri indicativa dei vari tipi di pregiudizi risarcibili e dei principi-guida per la loro risoluzione), mostra di non
condividere la contrapposizione fatta dalla Consulta nel 1994 tra danno morale e danno psichico.
Leggasi all’uopo: “Evoluzione del danno psichico in Cassazione e le prospettive europee” (Tagete n.2 Giugno 2000).
Ritenendo il Dott. Petti non coincidente la definizione del danno morale con quella europea, osservava, tuttavia,
che la disputa per la definizione del danno psichico è deputata alla scienza medica, e si soffermava su tre
definizioni:
a.danno biologico alla salute;
b.danno psichico quale menomazione e lesione alla salute psichica;
c.danno morale quale lesione della dignità umana proveniente da reato, da lesione alla salute e da qualsiasi
altra lesione dei diritti della persona umana.
Molto insiste il Dr.Petti sulla valutazione equitativa che spetta al giudice, dissentendo dalla percentualizzazione
secca dell’invalidità, posizione non condivisibile sotto il profilo della medicina legale.
La Corte Costituzionale, a sua volta, è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla legittimità di norme che, in
modo diretto od indiretto, disciplinavano la salute psichica e le conseguenze della sua lesione, ma non appare di sicuro
sufficiente, ai fini di una panoramica sul tema qui trattato, né corretto menzionare esclusivamente le due pronunce che più hanno
fatto discutere (la sent. della Corte Cost. n.372/94, sul danno da morte con cui la Corte sembrò obliterare il principio affermato
in precedenza, e cioè che la salute dell’individuo oggetto di protezione ex art. 32 Cost., è una soltanto, ed essa può essere lesa
sia vulnerando il soma che la psiche, e l’ordinanza n.293 del 22/7/1996, scaturita dalla perplessità e dai dubbi di legittimità
costituzionale sollevati da alcuni giudici di merito, tra cui il Tribunale di Bologna, sull’art.2059 c.c., riguardo ad alcune
affermazioni contenute nella motivazione della sentenza 372/94.
L’ordinanza, però, non soddisfaceva gli interpreti in quanto non precisava l’esatta linea di confine tra danno
psichico e danno morale.
Si può dire che dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale si desumono due differenti atteggiamenti:
a.da una parte, sul piano del “principio”, l’equivalenza e la parificazione tra salute fisica e salute psichica;
b.dall’altra, sul piano “risarcitorio”, la differenziazione tra i presupposti del risarcimento del danno alla salute fisica rispetto
a quelli del danno alla salute psichica.
Non vi è alcun dubbio, che il giudice delle leggi ha considerato “la salute psichica”, quantomeno sul piano
teorico, “come espressione d’un diritto soggettivo perfetto” fondato sull’art. 32 Cost., al pari della salute
fisica., poiché ciò si legge nella sentenza n.27 del 18/2/1975, con cui veniva dichiarato costituzionalmente illegittimo
l’allora vigente art.546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando
l’ulteriore gestazione poteva comportare danno o pericolo per la salute della madre, al fine della conservazione del
benessere fisico e dell’equilibrio psichico della madre; e così, analogicamente, pur riferito a fattispecie diversa
(norme in materia di rettificazione di attribuzioni di sesso) nella sentenza n.161 del 24/5/1985, che in contrasto con
la Cassazione, riteneva lecito e ammesso il mutamento di sesso se reso necessario dalla “tutela della salute
psichica del transessuale”).
Peraltro, osservo che il problema della ipotetica distinzione tra salute psichica e salute fisica non viene
neppure sfiorato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n.184 del 1986, dato che nella motivazione
si parla indifferentemente, di “menomazione biopsichica”, di salute in senso “fisio-psichico”, di “integrità
fisio-psichica” ovvero “biopsichica”.
Emerge chiaramente come la Corte Costituzionale, nell’affermare la piena risarcibilità del danno alla salute, ha
inteso evitare ogni distinzione tra integrità fisica e integrità psichica, confermando tale orientamento anche nella
successiva sentenza n.455 del 16/10/1990, ove si afferma il principio in virtù del quale il diritto alla salute è un
“diritto erga omnes” garantito immediatamente dalla Costituzione e come tale direttamente tutelato e azionabile
dai soggetti legittimati nei confronti degli autori dei comportamenti illeciti.
Identicamente, la Corte Costituzionale si era pronunciata con l’ordinanza n.458 del 1987, dichiarando
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.2952 del codice civile, nella parte in cui,
in tema di polizza infortuni, consentiva il decorso del termine di prescrizione anche nel caso in cui l’assicurato fosse
fisicamente o psichicamente impedito in conseguenza dell’infortunio subito.
La Consulta, in buona sostanza, non operò alcuna distinzione tra impedimento di fatto all’esercizio del diritto
derivante da lesione dell’integrità fisica, ed impedimento di fatto derivante da lesione dell’integrità psichica
venendo entrambi ritenuti insuscettibili di legittimare una sospensione del termine di prescrizione.
Così pure, con la sentenza n.50 del 2/2/90 che, in relazione all’art.5 della legge 482 del 2/4/1968,
considerava invalidi civili, ai fini delle provvidenze per essi previste, i soggetti affetti da “menomazioni fisiche”,
escludendo i minorati mentali”, la Corte Costituzionale, nel considerare “in modo unitario” la salute dell’individuo,
scelse la via della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo della citata legge nella parte in cui
escludeva dalle provvidenze i minorati psichici, “al fine di evitare sperequazioni tra gli affetti da minorazione fisica”.
E’ innegabile che la Corte Costituzionale, con le ultime pronunce (in particolare l’ordinanza 293/1996 sopracitata),
nel cercare di mettere ordine nei rapporti tra il danno morale e il danno psichico, (e osservando che entrambi sono
forme di danni non patrimoniali, risarcibili ex art.2059 c.c.), ha nettamente ribadito che: “il danno psichico alla
salute è assistito dalla garanzia dell’art. 32 Cost. e quindi sempre risarcibile!”
Alla luce di quanto sopra, si possono prevedere ulteriori assestamenti della giurisprudenza costituzionale in materia,
per il futuro.
DANNO PSICHICO E MOBBING
Fatta questa premessa, il nesso tra il danno psichico ed il fenomeno del mobbing nel lavoro è, per così dire,
consequenziale, fermo restando che svariate possono essere le cause, o concause, che determinano tale tipo di lesione.
I due concetti, danno psichico e mobbing, vanno di pari passo e sono in stretta relazione, per gli sconquassi che la
condotta da mobbing provoca ai danni della vittima di tale fenomeno ed anche ai suoi familiari.
“MOBBING”:
Fenomeno, dal greco “phainomenon” (“qls. Fatto o evento suscettibili di osservazione diretta o indiretta, provocato o no
dall’uomo”, dal Voc. It. Devoto Oli, pg. 883), termine mutuato dall’etologia ed utilizzato dallo psicologo svedese Hainz
Leymann agli inizi degli anni ’90, che sta ad indicare dal verbo to mob = attaccare, “l’attacco”, o “l’assalto” (“mob law”, altra
espressione derivata) quale forma di violenza psicologica messa in atto deliberatamente nei confronti di una “vittima” designata,
da parte di datori di lavoro, superiori gerarchici e colleghi, con un’aggressione reiterata, sistematica e pressoché giornaliera, e
che si manifesta, secondo l’esperienza del suddetto psicologo nei Paesi del Nord Europa, in quattro distinte fasi (leggasi “Il
fenomeno del mobbing” http://www.eurom.il/medicina) – Universita’ degli Studi di Roma “LA SAPIENZA” Istituto di Medicina
Legale e delle Assicurazioni “Cesare Gerin” a cura del Dott. BENUCCI Fabio ):
a.quella dei “segnali premonitori”
Il primo segnale, che non andrebbe sottovalutato, è da ricercarsi all’interno di una relazione precedentemente
neutra o addirittura molto positiva (sia tra colleghi che con il superiore) che subisce un brusco cambiamento in
negativo. Spesso tali problemi relazionali insorgono quando all’interno del gruppo lavorativo subentra una persona
neo-assunta o quando un dipendente riceve una promozione. Può succedere allora che la “vittima” riceva delle
critiche sul modo di condurre il proprio lavoro, fino a quel momento rispettato ed apprezzato.
b) quella della stigmatizzazione
La vittima subisce continui attacchi da un superiore e/o dai colleghi. Le aggressioni pressoché giornaliere hanno lo
scopo di danneggiare la persona in questione. In particolare gli attacchi hanno la funzione di:
– ledere la reputazione della “vittima” attraverso maldicenze, calunnie, ed esponendola al ridicolo;
– impedirle ogni forma di comunicazione, non rendendo più possibile l’espressione, in modo tale da escludere
l’individuo dal flusso delle informazioni ed isolandola socialmente;
– renderle impossibile svolgere il proprio lavoro in modo soddisfacente a causa dell’assegnazione di incarichi
lavorativi insignificanti e umilianti;
– minacciare la “vittima”.
c) quella dell’ufficialità
Quando questa situazione viene riconosciuta e segnalata all’ufficio del personale e viene aperta un’inchiesta, il
caso diviene allora “ufficiale”.
Molto spesso, però, quando vengono interpellati i colleghi per chiedere informazioni al riguardo, questi tendono a
colpevolizzare ulteriormente la “vittima” imputando la causa del problema alla sua personalità, ritenuta debole e
fragile, piuttosto che a condizioni esterne oggettive.
d) quella finale dell’ allontanamento
É a questo punto che la “vittima” è totalmente isolata da ciò che succede nell’ambiente lavorativo; viene
dequalificata professionalmente, le vengono assegnati incarichi lavorativi di scarso rilievo e poco gratificanti.
La persona va incontro così ad un lungo periodo di malessere generale, caratterizzato da disturbi depressivi e
psicosomatici, tali da indurla a rivolgersi ad uno specialista. A livello lavorativo può sopraggiungere il licenziamento
o le dimissioni”.
Secondo le tabelle formulate da psicologi del lavoro, è configurabile mobbing soltanto dopo almeno 6
mesi di vessazioni ripetute: in periodi più brevi si parla di “azioni mobbizzanti” (H.Ege, “Il mobbing” in
Italia”, Bologna, 1996, 32).
Secondo le ricerche della prestigiosa Clinica del Lavoro “L.Devoto” di Milano, oltre un milione sono gli italiani malati
di mobbing (72% al Nord, 20% al Centro, 8% al Sud), ben il 25% dei dipendenti sarebbe esposto al mobbing, e anche 7-8
casi al giorno risultano presentarsi al Centro del disadattamento lavorativo della Clinica del Lavoro per veri o presunti danni da
mobbing.
Il 10% di casi di suicidio presenterebbe come concausa il mobbing.
La persona va così incontro ad un lungo periodo di malessere generalizzato, caratterizzato da disturbi
depressivi e psicosomatici, tali da indurla a rivolgersi ad uno specialista della mente, e che culmina con il
licenziamento (per cumulo di sanzioni disciplinari accompagnate da visite fiscali a pioggia o per superamento del
periodo di comporto, a causa dei lunghi periodi di assenza dal lavoro in malattia) o le dimissioni, pur sempre
impugnabili per incapacità naturale, ex art. 428 c.c.
“Disturbo post-traumatico da stress o sindrome da stress”, viene definita la patologia in questione,
inquadrabile nella regolamentazione del citato Manuale, che non è solo l’espressione di un conflitto tra individui
all’interno di una struttura aziendale, ma anche dell’organizzazione della stessa.
Il “fenomeno” si manifesta nella persona affetta con attenuazione della responsività, disistima di sé,
ridotto coinvolgimento verso il mondo esterno, disturbi neurovegetativi, disforici e/o cognitivi, tendenza
ad “evitare” attività o situazioni che possono ricordare il trauma, insonnia, fobie, attacchi di panico,
anoressia, bulimia, che, nei casi più gravi, possono portare al suicidio.
“La depressione è una delle conseguenze più ricorrenti e più frequenti”, scrive il Dott. H.Ege, fondatore
dell’Associazione “PRIMA” di Bologna nelle sue copiose pubblicazioni:
“Nella persona colpita si ha una progressiva depressione, con riduzione della concentrazione e dell’autostima,
assieme a reazioni paranoiche.
Psicosomaticamente si può avere tremore prima di andare a lavorare, cefalee, problemi intestinali, sudorazioni
improvvise, incubi. Molte volte, però, le persone non riescono a spiegarsi la causa: per cui pensano che ci sia in
loro qualcosa che non va e che quindi la responsabilità sia propria. Se il mobbing non è riconosciuto in tempo,
oltre ad esserci un decadimento delle prestazioni lavorative, si può arrivare nei casi più gravi al suicidio.
Comunque, se il mobbing non si arresta, il lavoratore è spesso costretto a lasciare l’azienda nella quale lavora”
Da tale sindrome derivano lunghi periodi di malattia, un elevato consumo di psicofarmaci (basti pensare che nel
1998 per cause anche di diversa natura, come infortuni e malattie professionali, molestie sessuali, incidenti stradali
e perdita di congiunti, le vendite di ipnotici e benzodiazepine, Tavor in testa, sono salite in Italia a 99 milioni e ad
oltre 26 milioni quelle di antidepressivi e antipsicotici, Prozac per primo) e ingenti costi per l’assistenza degli
specialisti della mente (psichiatri, psicoterapeutici, psicoanalisti), non sempre risultando sufficienti od usufruibili in
tempi rapidi i CPS locali.
Si tratta dunque di costi elevatissimi sia per l’individuo che per la collettività!
Non sono sottovalutabili, inoltre, le conseguenze del mobbing sotto il profilo dei rapporti interpersonali del
soggetto leso, che sovente vengono gravemente compromessi, tanto da far considerare dalla giurisprudenza
civilistica più recente risarcibili a “favore dei prossimi congiunti”, i c.d. “danni riflessi” (Tribunale di Milano sent.
n.1223 del 7/2/2000 e Tribunale di Firenze sent. n. 451 del 24/2/2000, sul danno “edonistico” ai congiunti della
vittima).
Si tratta delle c.d. “vittime secondarie”.
Ciò si può constatare nelle sedi di consultazione sindacale e negli studi legali nella quotidianità, allorquando i
soggetti mobbizzati vengono accompagnati dai familiari e amici, invocando un intervento legale per porre fine al
clima di tensione e ai conflitti che si creano nell’ambito familiare.
Per queste ragioni si dice che “il mobbing colpisce due volte” e la sua risarcibilità viene assoggettata alla
regola dell”ingiustizia del danno” (art.2043 del codice civile).
“Il danno psichico nelle sentenze sul mobbing”.
L’onere probatorio costituisce uno degli ostacoli più difficili da superare, nelle cause di mobbing, dal momento che,
da una parte, non ci si può sottrarre al principio di cui all’art. 2697 del codice civile e, dall’altra, per le
reticenze od il rifiuto dei colleghi di lavoro del soggetto leso nel testimoniare, anche perché a volte essi
stessi portatori di mobbing (o mobber).
Il principio è consolidato e pacifico nella giurisprudenza, e la Cassazione lo ha più volte ribadito, addossando al
lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno (CASS, 11/8/1998 n. 7905; 18/4/1996 n. 3686).
Sussistono obiettive difficoltà di far valere il diritto di critica costituzionalmente garantito (art.21 Cost.),
non essendo sempre sufficiente il ricorso al principio del “fatto notorio” ex art. 115, 2° comma del codice
di procedura civile.
Osservava in modo critico il Dott. Luigi De Angelis, nel commento alle sentenze del Tribunale di Torino e della
Cassazione sul mobbing pubblicate sul”Foro Italiano” n.5/marzo 2000, in caso di danno da inattività forzata
imputabile al datore di lavoro (bossing o mobbing verticale) e da impoverimento di mansioni (demansionamento),
che si assiste ad una giurisprudenza ricchissima dal punto di vista quantitativo (tra le tante: CASS. Sez. Lavoro n.
3696/1996; CASS. Sez Lavoro n.11727 del 18/10/1999 in Guida al Lavoro n.46 del 30/11/99 pg. 25 con commento
di Paolo Scognamiglio, e in dottrina, M. Brollo in “La mobilità interna” , mutamento di mansioni art.2103 c.c.,
Commentario diretto da P. Schlesinger Milano 1997 pg. 259), ma forse un po’ sbrigativa sul piano dei concetti.
Si parla così di danno alla personalità, di danno alla professionalità, di danno all’immagine, (sent. Pret. Milano 26
giugno 1999 Riv. Crit. Dir. Lav. 1999, 883) specificando solo di rado se vengano in discussione come valore
patrimoniale, diretto o indiretto, o come espressione di diritti non patrimoniali e in specie di quelle “situazioni
soggettive costituzionalmente garantite” cui si riferisce la sentenza n. 356 del 1991 della Corte Costituzionale,
senza trascurare che ove nei ricorsi introduttivi della lite manchi la specificazione suindicata con l’indicazione
generica di danno alla professionalità o all’immagine, non vengono osservati gli obblighi inerenti all’oggetto della
domanda e alle allegazioni, e così potendo indurre il giudice a decisioni, a volte, forse poco ponderate rispetto alla
previsione dell’art. 414 nr. 3 e 4 c.p.c. ed al principio di identificabilità della domanda e delle esigenze e dei valori
ad essi sottesi con particolare riguardo ad un procedimento come quello previsto dalla L. n.533 del 1973.
Pur apprezzandone il contenuto, non sono a mio avviso, condivisibili le osservazioni del Dott. De Angelis, visto il
proliferare di cause e di sentenze sui temi specifici suindicati e riconducibili alla condotta da mobbing, potendo ben
valere, in ogni caso di evento di danno biologico da danno psichico, conseguente ad “illegittima e
vessatoria condotta datoriale”, (violazione dell’art.2103 c.c per demansionamento e dequalificazione
professionale, (CASS. n.11727/1999 in Guida al Lavoro n.46 del 30/11/99 con commento di Paolo Scognamiglio;
CASS. n.3341/1996 – Trib. Milano 30/5/97 D.L., 1997, pg.789 ;Pret. Milano 7/1/1997 in OGL, I, 1997 – CASS.
n.411/1990 in Lav. e Prev. Con nota di Meucci e Lav 80, 1990, pg. 659, con nota di Muggia; Trib. Catania 9/4/98
in Guida al Lavoro n. 47/1998; Pret. Torino 27/1/1994, Est. Nardin, in Giurisprudenza n. 44/1994 con commento di
D’Avossa), licenziamento ingiurioso (Cass. Sez. Lav. sent. n.5850 dell’1/7/1997), molestie sessuali (sentenza
del 21/11/98 Trib. Milano 5854/1999), visite fiscali ossessive ed a pioggia (Cass. Sez. Lav. sent. n.475 del
settembre 1999 e sent. n.7768 del 17/7/1995), carichi eccessivi di lavoro (Pret. Milano, 9 settembre 1998, Est.
Marasco, Foti – Cass. 5/2/2000 nr.1307), e stress lavorativo per usura “psico-fisica” (CASS. Sez. Lav. sent. n.
8267 dell’1/9/1997, per caso “d’infarto”), la clausola generale “dell’ingiustizia del danno” di cui all’art.2043
c.c..
La stessa cui si è ispirata la Corte di Cassazione con la sentenza della Sezioni Unite n.500 del 1999, in tema di
risarcibilità del danno da interessi legittimi, dando valore alla meritevolezza degli interessi tutelati.
E potrà sempre soccorrere, solo in caso di difficoltà e previa valutazione medico-legale del danno psichico ed ai fini
della sua quantificazione, il principio della liquidazione equitativa del danno ex art.1226 del codice civile, danno che
il Tribunale di Torino, dapprima la sentenza 6/10 – 16/11/99 (causa Erriquez c/Ergon Materie Plastiche) ha
riconosciuto, affrontando apertamente il mobbing come “fenomeno unitariamente inteso” e dandogli rilevanza
giuridica quale “autentica catastrofe emotiva” per avere causato alla lavoratrice per i maltrattamenti subiti ad
opera del Capo Turno (il mobber) una grave forma di depressione psichica, la menomazione o riduzione della
capacità lavorativa e l’autosvalutazione di sé, in virtù del “mero fatto notorio” ex art. 115, comma II, c.p.c.
Il dato rilevante di questa pronuncia è che il Tribunale ha superato a piè pari quello che viene ritenuto un
passaggio obbligato, ovvero la CTU medico-legale, con disappunto di tanti e in special modo dei medici legali di
parte imprenditoriale e assicurativa ritenendo sufficiente (e così sussistente il nesso eziologico tra l’ingresso della
lavoratrice in azienda e la malattia psichica) la documentazione medica ad hoc prodotta, quale danno psichico
temporaneo.
Anche nella successiva sentenza dello stesso Tribunale del 30/12/99 (Stomeo c/Ziliani Spa) (in cui il mobber è il
datore di lavoro ed il cui comportamento è stato ritenuto fonte di responsabilità in base al combinato disposto
degli articoli 32 Cost. e 2087 c.c), l’azienda convenuta veniva condannata per la temporanea sindrome
ansioso-depressiva attiva (insonnia, ansia, inappetenza e crisi di pianto), a livello di “fatto notorio” ex art.115
c.p.c., comma 2°, dato di partenza (in entrambe le sentenze dunque) del “mobbing”, previo:
– accertamento della sussistenza dei comportamenti datoriali riconducibili entro tale fenomeno;
– accertamento del danno psichico e della sua riconducibilità al mobbing subito in azienda;
– liquidazione del danno.
Al contrario dell’iter percorso dal Tribunale di Torino nelle due sentenze ora citate, la Cassazione, nella ormai
nota e prima sentenza sul mobbing n.143 dell’8 gennaio 2000 (Pres. Trezza, Rel. Prestipino, in causa Filonardi
c/Henkel Spa), non solo riteneva non sufficienti i certificati medici sulla depressione (e non provate sia
l’accusa di molestie sessuali che il mobbing quale causa della sindrome depressiva) e non prendeva in
considerazione alcuna lo stato emotivo alterato che rendeva la lavoratrice non compos sui a causa delle
molestie sessuali subite dal Capo Reparto, ma considerava altresì la lettera di diffida a mezzo stampa
inviata dalla lavoratrice per boicottaggio e arresto di carriera lesiva del decoro del datore di lavoro e
come tale idonea a legittimare il licenziamento “per essere venuto meno l’elemento della fiduciarietà”.
Per la verità la sentenza appare poco incisiva, oltrechè superficiale perché non affronta le questioni di principio
attinenti ai limiti del “diritto di critica” (art.21 Cost.) né gli effetti professionali e personali derivanti dalle situazioni
di mobbing tra superiore e dipendente, come correttamente osservava in proposito anche la Vice Consigliera della
Parità, Donata Gottardi (Guida al Lavoro n.4/2000, pg.21).
Si è ripetuta negativamente la Cassazione (sentenza n.5491 del 2 maggio 2000 nella causa
Casarolli/Ansaldo Spa), ove il danno biologico per persecutorietà datoriale era stato riconosciuto dal
Pretore di Milano, Dott. Santosuosso (sent. n. 3427/1995), escluso dal Tribunale (sent.10246/1996) con la
riforma integrale della sentenza e infine rigettato dalla Suprema Corte.
DANNO PSICHICO E DANNO ESISTENZIALE
Alla luce delle suestese considerazioni e dei principi emergenti dalle pronunce delle Corti di legittimità e di merito,
non può sfuggire all’attento osservatore la inscindibilità del nesso tra la lesione dell’integrità psichica (e
quindi, dell’insorgenza del danno psichico) e il danno esistenziale.
Senza voler entrare nell’ormai mare magnum della dottrina su quest’ultima nuova voce di danno (Cendon e Ziviz: “Il
danno esistenziale” in Le Voci della Responsabilità Civile, 1992; Ziviz: “La tutela risarcitoria della persona” Giuffrè
Editore 1999, Monateri – Bona – Oliva: “Il nuovo danno alla persona” Giuffrè Editore 1999, e “Mobbing: vessazione
sul lavoro”, Giuffrè Editore 2000; Bellantoni: “Lesione dei diritti della persona”, Cedam 2000), e nella sempre più
copiosa giurisprudenza in cui il danno esistenziale ha trovato ingresso (Trib. di Torino 8/8/95 in “Resp. Civ. e
Prev.”1996, pg.282 – Trib. Roma 16/2/90, in GI, 1991, I, 2, e Trib. Milano 1988 in Sanna c/Arbia – Trib. Milano
sent. 31/5/1991, in “Danno e Responsabilità” n.1/2000 – Trib. Verona 26/2/1996 in “Foro It”., 1996, I, 3529. –
Giudice di Pace Cassamassima 10/6/1999 in “Danno e Resp. 2000, 89, mentre in Cassazione vi è scarso
accoglimento, tranne rare pronunce come CASS. sent. n.60 del 7/1/1991, con nota di R.Simoni, nesso di causalità
e danno esistenziale), è fondamentale sottolineare in questa sede soltanto alcuni aspetti e passaggi-chiave sul
tema.
La nozione di “danno esistenziale”, intesa originariamente come “somma di ripercussioni relazionali di
segno negativo “per le gravose rinunce a un facere” è stata progressivamente ampliata dalla
interpretazione della dottrina e giurisprudenza fino a designare, omnicomprensivamente, la tutela
risarcitoria degli aspetti esistenziali della “dimensione uomo”.
Si può desumere da tale assunto, che l’elaborazione di tale tipologia di danno risponde alla inadeguatezza della
categoria del danno morale per ricomprendere in sé numerosi pregiudizi di natura non patrimoniale, derivanti dalla
violazione di “nuovi” diritti della personalità (il diritto all’autodeterminazione della coppia, il diritto alla procreazione
cosciente e responsabile, il diritto alla serenità familiare).
Tali pregiudizi, irrisarcibili in base alla clausola restrittiva contenuta nell’art. 2059 c.c., vengono
ricondotti nell’ambito dell’art.2043 c.c., ripercorrendo l’iter logico che fu seguito per la lesione del bene
salute.
In dottrina, cito, per le varie tesi a favore e contro la categoria del danno esistenziale, G. Cricenti, “Il danno non
patrimoniale”, Padova, 1999, 166 e, in particolare, U. Oliva in “Mobbing: quale risarcimento?”, che prospetta “il
ricorso alla categoria del danno esistenziale derivante dalla lesione della dignità umana” e risarcibile secondo il
tracciato normativo dato dalla combinazione dell’art.2043 c.c. e dell’art. 41, 2° comma, Cost., in relazione all’art.
2087 c.c.
Ciò perché, anche ad avviso del sottoscritto, il mobbing appare un buon concetto contenitore, idoneo a
ricomprendere in sé riassuntivamente, ma efficacemente, una serie di fenomeni sin qui studiati
singolarmente come espressioni di lesione alla salute del lavoratore, per provocata depressione, vuoi
per demansionamento o molestie, o sanzioni disciplinari reiterate o visite fiscali a pioggia, vuoi per
stress lavorativo e/o usura psico-fisica (CASS. n. 1307/2000 –e n. 8267/1997).
Data la sua permanente transitorietà e in considerazione delle “gravose rinunce ad un facere” che il danno
esistenziale comporta, come conseguenza del danno psichico, ed essendo inteso come danno a ciò che la persona “è” e
non a ciò che la persona “ha”, ne deriva che, trattandosi di un danno che comprime ogni attività non reddituale del
soggetto (e perciò lesivo d’un diritto soggettivo della persona garantito costituzionalmente), è danno come tale risarcibile
(CASS. sent. 19/2/1998 n. 1761), senza per questo sovrapporsi al danno biologico (danno-evento alla salute, tabellarmente
quantificabile), al danno psichico (patologia medica suscettibile di accertamento e di quantificazione medico-legale) e,
tantomeno, infine, al danno morale (pretium doloris).
Proprio allo scopo di evitare confusioni e sovrapposizioni e in considerazione del florilegio di categorie di danno,
asserisce il Prof. Pier Giuseppe Monateri (Tagete n.3 settembre 2000) la necessità di un coordinamento tra
le tre figure di danno (biologico – morale – esistenziale) delle quali la prima figura è il danno evento e le altre due
danni – conseguenza, in virtù della sentenza della Corte Costituzionale n.184 del 1986: ovvero, il coordinamento
tra gli artt. 2059 e 2043 del codice civile.
“Il filo conduttore rimane ed è pur sempre il criterio dell’ingiustizia del danno”, posto che tra le due figure
tradizionali delle quali una, il danno biologico, ha sovrastato di gran lunga l’altra, il danno morale, che ne
è uscito palesemente ridimensionato (basti pensare al “limite” del pregiudizio da reato), si è venuta a creare
una specie di “zona intermedia” o “zona d’ombra”, quella cioè dove ben può trovare alloggio il danno
esistenziale.
Difatti, nulla cambia se al posto dell’art. 2043 c.c. e 32 Cost. si mettono l’art. 2043 c.c. e l’art. 29 Cost., essendo
così soddisfatto “per la lesione della serenità familiare” il requisito dell’ingiustizia del danno, come per la vigenza
degli artt. 1 e 2 della L.898/70 e dell’art. 8, 1° comma, legge 848 del 1955 (Convenzione Europea dei diritti
fondamentali dell’uomo).
In questo quadro si colloca la figura del danno esistenziale, come conseguenza di una “lesione della
personalità”, risarcibile in virtù del principio, accolto anche da altri sistemi giuridici, dell’il quod plerumque
accidit!.
Lesione da provare, certamente non attraverso una perizia medico-legale, utile rectius necessaria per la malattia psichica, e
perciò liquidabile in via equitativa..
Poiché sia la dottrina che la giurisprudenza hanno dato di recente sempre più ingresso a tale “nuova” voce di
danno (Navarretta: “Diritti inviolabili e risarcimento del danno”, Torino, 1996; Tagete: Rivista medico-giuridica in
“Danno esistenziale” n.1 – Marzo 2000; in particolare, nell’ambito del lavoro, CASS. sent. 11727 del 18/10/1999
che si esprime in termini di “sicuro danno alla serenità familiare”, a causa di demansionamento, che
“costituisce un bagaglio peggiorativo diretto ad intervenire negativamente nelle infinite espressioni della
vita”, e non avendo una matrice prettamente medico-legale, si rende necessario ricorrere, ai fini della sua
risarcibilità, alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., contemperandola alle altre voci di danno
dedotte. (Trib. Milano, 20 Ottobre 1997, in Danno e Responsabilità, 1999, 82, con nota di Bona – Trib. Milano
sent. 21/10/1999, in “Responsabilità Civile e Previdenziale, 1999, pg.1335 – Trib. Verona, 26 febbriao 1996, in
Diritto, informazione e informatica, 1996, 576.
Del resto, se per il Prof. Cendon si può parlare di risarcibilità di danno esistenziale in caso di vacanza rovinata,
morso del cane, rumori del vicino di casa e quant’altro idoneo a togliere serenità ed equilibrio alla persona, a
maggior ragione tale voce di danno si potrà configurare e liquidare – come effetto del mobbing – per lo
stravolgimento dell’ esistenza della vittima di tale fenomeno e, in ogni caso, anche se sussistono difficoltà nel fare
rientrare nel concetto unitario di mobbing, a seguito del danno psichico patito, la illegittima condotta datoriale.
MOBBING E TECNOPATIA
Il danno psichico da mobbing è suscettibile di riconoscimento quale malattia professionale o “tecnopatia”?
Il quesito è legittimo, se ci si rapporta alla premessa del presente elaborato.
Con il supporto ed il rigore della medicina legale, nonché delle pronunce della Corte Costituzionale in materia e anche
della più recente legislazione, si ritiene di poter rispondere affermativamente, pur con ulteriori ed opportuni approfondimenti in
sede legislativa, giurisprudenziale e con auspicabili interventi dei Patronati Sindacali, se sussistono:
la violazione dei diritti enunciati dagli artt. 2087 e 2043 e 2049 c.c., in relazione ai principi
costituzionalmente garantiti (artt.2-3-4-32-35-37 e 41, 2° comma Cost.),
la lesione dell’integrità psichica suscettibile di accertamento medico-legale in misura percentuale,
la sussistenza dei requisiti di cui agli artt. 2-3 T.U. n.1124/1965 nell’ambito della normativa di cui agli
artt.2087 e 2094 c.c.
Valgono, altresì, a sostegno:
l’orientamento espresso ancora di recente dalla Suprema Corte di Cassazione (CASS: sent. n. 9801/1998),
riguardo alla riconducibilità al concetto di “occasione di lavoro” di tutto quanto attiene alle “condizioni
ambientali” di lavoro);
l’iter percorso dalla Corte Costituzionale a far tempo dalla sentenza n.179 del 10/2/1988 (passaggio per il
riconoscimento delle malattie professionali, dal sistema tabellare chiuso a quello misto extra-tabellare, confermato
rectius, rafforzato dalla sentenza c.d. “additiva” n.118 del 18/4/1996 in relazione alla pronuncia di
incostituzionalità di alcuni articoli della L.210/1992 circa la limitazione temporale, e il conseguente diniego di equo
indennizzo, a favore dei soggetti affetti da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni
e somministrazioni di emoderivati per vaccinazioni antipolio;
nonché, infine, il recente D. Lgsvo n.38 del 23/2/2000 (per il “riordino dell’Inail”), che, nel prevedere
l’indennizzo del danno biologico da infortunio sul lavoro a carico dello Stato, all’art. 10 comma 4° qualifica
come malattie professionali anche “quelle non tabellate”.
Da ricordare, altresì, che nel decreto legislativo è prevista una franchigia per il danno biologico sino al 5%,
non è considerato il danno biologico temporaneo, a mio avviso altrettanto meritevole di indennizzo
quanto quello permanente, come accade nel risarcimento del danno civilistico.
Pertanto, la “specifica tabella delle menomazioni” del D.M. 12/7/2000 si integra nel complesso dispositivo normativo
del T.U. ed è predisposta per finalità indennitarie secondo le regole da esso previste.
Precisamente, le novità introdotte dal Decreto Legislativo sono le seguenti.
In luogo della rendita erogata dal T.U. (art. 66 punto 2), viene valutata la menomazione – di cui sopra –
comprensiva degli aspetti dinamico-relazionali, utilizzando una specifica “tabella”: dal 6% al 15% viene
liquidato un indennizzo in forma capitale, mentre per valutazioni del 16% e oltre viene costituita una
rendita sulla base della “tabella indennizzo danno biologico” (in relazione all’età dell’assicurato).
Un’ulteriore quota di rendita viene erogata per le menomazioni di grado pari o superiori al 16%, per il
ristoro del danno patrimoniale, in relazione:
a.al grado d’invalidità,
b.all’importo della retribuzione,
c.all’indicatore riportato nella “tabella dei coefficienti” di cui al D.M.12/7/2000.
A seguito e nei confronti del D.M 12 luglio 2000 del Ministero del Lavoro e Previdenza Sociale (pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale 25 luglio 2000), pur essendosi attenuto tale nuovo sistema indennitario all’orientamento della
giurisprudenza sia costituzionale (sent. 372/1994) che di legittimità (CASS. sent. n.6404/1998), il Prof. Marino
Bargagna ha espresso notevoli perplessità riguardo al confronto delle “menomazioni” – secondo le nuove tabelle
Inail – con la realtà forense (Guida al Diritto – Il Sole 24 Ore, n.32 del 2/9/2000).
Senza perciò trascurare l’intero Titolo 1 del codice civile e l’art. 15 della L.300/1970 (Statuto dei
lavoratori), per il divieto di atti discriminatori.
Potrebbero anche adottarsi, ai nostri fini, Protocolli d’intesa tra INAIL e forze sociali al pari di quello del 12/12/1991
siglato per i criteri valutativi dell’ipoacusia professionale, a garanzia ulteriore della tutela della salute ed a
salvaguardia del dovere di solidarietà (art.2 Cost.) e della sicurezza sociale (art.38 Cost.).
I Patronati Sindacali molto possono operare in questa direzione.
CONCLUSIONI
Il mobbing , è un fenomeno negativo che si diffonde sempre di più nei luoghi di lavoro, e danneggia la salute
gravemente, e a volte forse irreparabilmente.
Il cittadino della strada, lavoratore o lavoratrice che sia, ormai sta imparando a conoscerlo, a sue spese, e a
descrivere tutte le complesse e pesanti condizioni in cui lo vive con una sola parola, sintetica e quantomai
significativa del disagio: “mobbing”!
Occorre che la società si faccia carico del problema anche perchè il fenomeno sta emergendo anche in ambienti
diversi dal lavoro, come nella famiglia (interessante la sentenza della Corte d’Appello di Torino 21/2/2000 in Foro It.
n.5/2000 pg.1555) e in molti altri ambienti, anche insospettabili come quello del calcio multimiliardario (leggasi in
Corriere della Sera del 22/8/2000 il caso del giovane diciassettenne calciatore italiano, figlio di un noto portiere,
Niccolò Galli, discriminato e messo fuori dalla squadra inglese dell’Arsenal dove militava, perché italiano, perché al
pub non beveva birra come gli altri giocatori, perché amava indossare scarpe belle ritrovandosele infangate dai
compagni di squadra, venendo emarginato nonchè preso di continuo a gomitate dagli stessi compagni in campo,
tanto da indurlo a ritornare in Italia).
Equivalenti fenomeni da mobbing sono il bullismo (bullying, tra i giovani) e il nonnismo, da sempre presente nelle
caserme.
Il mobbing, per gli sconquassi che determina alla psiche del soggetto leso e anche a tutti coloro, tra i familiari e i
congiunti, che lo circondano, va identificato, combattuto ed opposto fermamente, non essendo di sicuro
sottovalutabili dalla collettività le conseguenze di quella che può divenire nei casi più gravi una malattia mentale
fino a manifestazioni estreme.
Bisogna prenderne atto per gli opportuni interventi preventivi non solo legislativi, ma anche con codici o
decaloghi di comportamento e accordi sindacali, sia preventivi che repressivi (mi appare un eccesso
l’introduzione del reato di mobbing, essendo già perseguibili penalmente le fattispecie di reati quali
lesioni, maltrattamenti, violenza privata) e, possibilmente, con benefici previdenziali, e con urgenza.
Eppoi, siamo sicuri che sia bisognoso di cure e d’interventi terapeutici, psicologici e psichiatrici solo il
mobbizzato, e non anche, specie nei casi di molestie, violenze morali e fisiche, il portatore di mobbing,
ovvero il mobber?
Non accorgersi anche di questo potrebbe costituire un’altra espressione della ingiustizia del danno, rientrando sovente nella
condotta dei datori di lavoro
(a prescindere dalla solidale responsabilità con il preposto od il collega del mobbizzato, sovente affermata dai
Giudici del Lavoro del Tribunale di Milano) la prassi di non perseguire il superiore gerarchico o il dipendente per il
danno procurato alla persona vittima del mobbing.
Il che rappresenta una doppia ingiustizia!
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IL QUADRO NORMATIVO ATTUALE A TUTELA DELLA DIGNITÀ DEL LAVORATORE
ED I PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ DELLA CONDOTTA DI MOBBING.
I DISEGNI, PROGETTI E PROPOSTE DI LEGGE RELATIVI AL MOBBING
Prof. Avv. Luciano Spagnuolo Vigorita – Studio Associato Legale Tributario
Fonte: http://www.guidaallavoro.it/lavoro/redazione/mobbing/Vigorita_Relazione.html
1. Premessa
Analizzate sinora le cause, le manifestazioni e gli effetti del mobbing, ed avendone quindi ben chiara la definizione,
è possibile ora delineare il quadro normativo generale che, nell’ordinamento attualmente vigente, costituisce
riferimento per la tutela del lavoratore nel caso in cui sia sottoposto a persecuzioni psicologiche.
Come già emerso nei precedenti interventi, infatti, anche in carenza di una legislazione ad hoc la giurisprudenza ha
sviluppato, utilizzando norme già esistenti, delle ricostruzioni giuridiche che permettono di sanzionare il mobbing e
molti dei singoli comportamenti ad esso ascrivibili.
Esamineremo qui gli strumenti di tutela che sono già rinvenibili nell’ordinamento e, in seguito, forniremo una breve
illustrazione dei progetti e disegni di legge che sono stati presentati, sia in epoca molto recente sia da diversi anni,
in materia di molestie morali sul luogo di lavoro.
2. Il quadro normativo attuale
Nella ricerca di una disciplina giuridica che permettesse, da un lato, la tutela del lavoratore ed il risarcimento per i
danni subiti in conseguenza dei comportamenti persecutori sul lavoro e che, dall’altro, sanzionasse e scoraggiasse
detti comportamenti, la giurisprudenza consolidata ha fatto uso di diversi principi e norme appartenenti a molteplici
rami del diritto. Sono richiamabili in materia sia disposizioni internazionali e comunitarie sia norme costituzionali,
nonché regole civilistiche, penali e legislazioni speciali (Statuto dei lavoratori, disciplina di tutela della salute e
sicurezza sul lavoro). Il mobbing, infatti, costituisce una fattispecie complessa che comporta il coinvolgimento (e
la compromissione) di diritti fondamentali non solo dell’individuo in qualità di prestatore di lavoro, ma anche della
persona in quanto tale. Ne deriva la costruzione di un articolato impianto normativo dove le regole vengono a
combinarsi e sovrapporsi, in relazione alle modalità concrete di attuazione delle condotte persecutorie ed ai beni
giuridici che esse ledono.
La nostra trattazione riguarderà le norme di tutela civilistica, anche se non potranno essere sottaciute le principali
norme penali rilevanti.
2.1. Le norme cardine della tutela
La base della ricostruzione giurisprudenziale consolidata in questa materia, che tiene conto dei principi
fondamentali, comunitari e costituzionali, è costituita da una lettura combinata delle norme costituzionali di cui
all’art. 32 Cost. (che sancisce il diritto primario ed assoluto alla salute) ed all’art. 41, comma 2, Cost. (che pone
un limite al principio della libertà di iniziativa economica privata laddove ne vieta l’esercizio con modalità tali da
pregiudicare la sicurezza e dignità umana) con le norme civilistiche contenute nell’art. 2087 c.c. (che individua la
responsabilità contrattuale del datore di lavoro) e/o nell’art. 2043 c.c. (che delinea invece la responsabilità
extra-contrattuale), nonché negli artt. 1175 e 1375 c.c., (principi di correttezza e buona fede). In particolare,
l’art. 2087 c.c., che, ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, dispone che
“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del
lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di
lavoro,” è interpretato in quest’ambito dalla costante giurisprudenza come norma di chiusura del sistema di
protezione del lavoratore, che impone al datore di lavoro non solo l’adozione delle misure richieste specificamente
dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche, ma anche l’obbligo più generale di attuare tutte le
misure generiche di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l’incolumità ed integrità
psico-fisica del lavoratore. Da questa disposizione viene quindi fatto derivare sia il divieto per il datore di lavoro
di compiere direttamente qualsiasi comportamento (quale ne siano la natura o l’oggetto) lesivo dell’integrità fisica e
della personalità morale del dipendente, sia di prevenire e scoraggiare la realizzazione di simili condotte
nell’ambito ed in connessione con lo svolgimento dell’attività lavorativa. L’inadempimento di tale suo obbligo,
genera la responsabilità contrattuale del datore di lavoro.
In giurisprudenza è stato chiarito che la responsabilità diretta ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro per la lesione
della salute del lavoratore è esclusa quando sono eccezionali, inevitabili ed assolutamente imprevedibili le
conseguenze che in concreto scaturiscono, per il soggetto passivo, dall’atteggiamento perpetrato in
azienda (in questo caso si è ritenuto non sussistente il nesso causale). Infatti, “per accertare se una condotta
umana sia (..) causa (..) di un determinato evento, è necessario stabilire un confronto tra le conseguenze che,
secondo un giudizio di probabilità ex ante, essa era idonea a provocare e le conseguenze in realtà verificatesi,
le quali, ove non prevedibili ed evitabili, escludono il rapporto eziologico tra il comportamento umano e l’evento,
sicché, per la riconducibilità dell’evento ad un determinato comportamento, non è sufficiente che tra l’antecedente
ed il dato conseguenziale sussista un rapporto di sequenza, occorrendo invece che tale rapporto integri gli estremi
di una sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità statistica, per cui l’evento appaia come una
conseguenza normale dell’antecedente.”
La considerazione dell’inadempimento dell’obbligo del datore di lavoro di porre in essere tutte le misure necessarie
al fine di proteggere l’integrità psico-fisica del lavoratore acquista particolare rilievo laddove si consideri che il
datore venuto al corrente di condotte illegittime perpetrate dai suoi dipendenti ha a disposizione strumenti per
intervenire a tutela dei lavoratori vessati.
In giurisprudenza è stata riconosciuta, infatti, la legittimità del licenziamento in tronco di lavoratori che abbiano
posto in essere delle gravi condotte nei confronti di altri dipendenti. In particolare, ciò si è verificato con
riferimento a comportamenti di molestia sessuale (e anche se il lavoratore era stato assolto in sede di giudizio
penale), e in un caso in cui il superiore gerarchico, che aveva tentato in modo molesto di instaurare una relazione
sentimentale con una dipendente a lui subordinata gerarchicamente, la aveva poi sottoposta a vessazioni e
discriminazioni.
Oltretutto, è stato anche ritenuto in giurisprudenza che il licenziamento disciplinare può in questi casi così gravi,
ed in generale in tutti i casi di comportamenti “lesivi dell’interesse dell’impresa e manifestamente contrari
all’etica comune o contraddistinti da rilevanza penale,” essere fondato direttamente sulla legge, senza che
sia necessaria la previsione nel codice disciplinare di tali condotte. Tali comportamenti, infatti, violano i doveri
fondamentali del lavoratore ed i principi della convivenza civile, e sono tali da manifestare “consapevole ribellione o
trascuratezza dell’autore del fatto nei confronti dell’assetto organizzativo in cui è inserito.”
Il potere del datore di sanzionare disciplinarmente i lavoratori che mettono in atto comportamenti molesti verso
altri può valere non solo nei casi in cui le condotte lesive siano compiute ad opera dei superiori nei confronti dei
soggetti sottoposti al loro potere gerarchico, ma anche nell’ipotesi opposta: il datore di lavoro può sanzionare,
specificamente recedendo dal rapporto di lavoro, le condotte gravemente offensive, gli insulti, ingiurie e minacce
dei lavoratori di livello inferiore nei confronti dei superiori. In tali condotte sono state spesso riscontrate lesioni del
prestigio del datore di lavoro per il buon andamento dell’azienda, negazione del potere gerarchico e rifiuto di
obbedienza all’ordine di lavoro legittimamente dato (con violazione dei diritti del datore all’ordinato adempimento
della prestazione lavorativa e corrispondente violazione degli obblighi del lavoratore di diligenza e di osservanza
delle disposizioni dettate per l’esecuzione e la disciplina del lavoro). È stato anche ritenuto licenziabile il lavoratore
risultato essere il responsabile di diverbi ripetuti, tali da determinare un ambiente lavorativo insopportabile.
Secondo certa giurisprudenza, la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., sin qui analizzata, può concorrere
con quella extracontrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi primari (vengono ancora qui in rilievo la
lesione del diritto alla salute ex art. 32 Cost. e di quello alla sicurezza e dignità – nella specie, dei lavoratori –
sancito dall’art. 41, comma 2, Cost.), poiché sul datore di lavoro grava il generale obbligo di neminen ledere
previsto dall’art. 2043 c.c. ed anche quello specificamente stabilito dall’art. 2049 c.c. (responsabilità
indiretta dei padroni e committenti per il fatto illecito dei loro dipendenti commesso nell’esercizio delle incombenze
lavorative).
2.2. Le altre norme rilevanti
Le norme appena richiamate non esauriscono il quadro normativo di riferimento del mobbing: se esse
rappresentano le disposizioni che la giurisprudenza ha sempre applicato nelle sue decisioni al fine di garantire un
risarcimento al lavoratore leso, è pur vero che altre norme fondamentali vengono comunque in rilievo e che ulteriori
(specifiche) disposizioni devono essere combinate a quelle basilari in relazione all’articolarsi, nel caso concreto,
delle specifiche condotte lesive.
2.2.1. Norme fondamentali, interne ed internazionali
Tra le norme fondamentali che rivestono rilievo in materia di mobbing, si annoverano disposizioni sia costituzionali
sia internazionali e comunitarie, cui la giurisprudenza ha attinto per coordinare ed interpretare le norme che ha,
come appena evidenziato, direttamente applicato nel sanzionare le condotte lesive.
Nella Costituzione, assumono importanza a riguardo l’art. 2, che riconosce e garantisce “i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità,” l’art. 4, che sancisce il
diritto al lavoro e la promozione delle condizioni che lo rendano effettivo, l’art. 13 che riconosce il diritto inviolabile
alla libertà personale, l’art. 35, che al primo comma prevede che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue
forme ed applicazioni” ed al secondo menziona la cura dell’elevazione professionale dei lavoratori, l’art. 46, che, ai
fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro, riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle
aziende.
Nel diritto internazionale, a riconoscimento (e tutela, ovviamente nei limiti di sanzionabilità propri di questo
ordinamento) dei diritti fondamentali della persona, particolare rilievo rivestono la Dichiarazione Universale dei
diritti dell’uomo (New York, 10 dicembre 1948), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 4 novembre 1950), la Carta sociale europea (Torino, 18
ottobre 1961), i Patti ONU sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (16 dicembre
1966).
In particolare nel diritto comunitario, sono rilevanti la Carta comunitaria dei diritti fondamentali dei
lavoratori (Strasburgo, 9 dicembre 1989) ed i principi ricavabili dalla recente Risoluzione del Parlamento sul
rispetto dei diritti dell’uomo nell’Unione Europea del 1997, che: tra gli altri diritti fondamentali, riafferma il
diritto al rispetto della vita privata e familiare, della libertà di opinione e di espressione, il diritto al lavoro, il diritto
all’organizzazione collettiva degli interessi; esprime preoccupazione per l’aumento della violenza nei luoghi di lavoro,
che va “dalla rissa all’aggressione fisica passando per le molestie sessuali e le angherie;” ribadisce i fondamenti
giuridici della lotta contro le discriminazioni ed il razzismo.
2.2.2. Norme che devono, nella fattispecie specifica, essere considerate
Oltre alle norme di applicazione generale, esistono nell’ordinamento norme, spesso molto rilevanti, che possono e
devono essere applicate se, nel caso concreto, si verificano i comportamenti che ne integrano la fattispecie.
Richiamando qui quanto esposto nel trattare i singoli comportamenti ascrivibili al mobbing nella nostra prima
relazione, rileviamo innanzitutto che la prima tra tutte queste norme è la disposizione contenuta nell’art. 2103
c.c. (che vieta le ipotesi di demansionamento e dequalificazione, e la cui violazione dà luogo al risarcimento del
danno alla professionalità): ciò perché la non osservanza di questa norma si verifica molto frequentemente, come
dimostrato dalla cospicua giurisprudenza in materia.
Inoltre, se il comportamento di mobbing si sostanzia o comporta una qualsiasi forma di discriminazione saranno
applicabili le norme antidiscriminatorie (anche di rango costituzionale ed internazionale). Segnatamente, l’art. 3
Cost., che riconosce il diritto all’uguaglianza formale e sostanziale, buona parte degli articoli contenuti nel Titolo
III della Costituzione (rapporti economici: art. 35, ultimo comma, per la libertà di emigrazione e la tutela del lavoro
italiano all’estero, art. 37, comma 1 per il lavoro femminile, art. 39 per la libertà sindacale); le norme
internazionali e comunitarie in tema di divieto di discriminazione sul lavoro; lo Statuto dei Lavoratori,
all’art. 15, comma 1, lettera b, e comma 2, che vieta gli atti a qualsiasi titolo discriminatori durante il rapporto di
lavoro, all’art. 19 sulla libertà sindacale, all’art. 8 che vieta le indagini di opinione, nella misura in cui, non
essendo giustificate da esigenze lavorative, potrebbero nella pratica indurre il datore a discriminare il lavoratore a
causa delle sue opinioni; infine, la legislazione specifica a tutela della non discriminazione per il lavoro femminile (L.
9 dicembre 1977, n. 903 e L. 10 aprile 1991, n. 125 sulle “azioni positive per la realizzazione della parità
uomo-donna nel lavoro”) e per i portatori di infezione HIV (art. 5, L. 5 giugno 1990, n. 135).
Nel caso in cui, come si è verificato, il comportamento del datore di lavoro consista nel richiedere ripetutamente
all’Inps di effettuare le visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del dipendente, può essere
verificato il mancato rispetto dell’art. 5, St. Lav., in tema appunto di accertamenti sanitari.
Se il comportamento datoriale si concreta nella pressione per indurre il lavoratore alle dimissioni o comunque ne
altera il comportamento a tal punto che il lavoratore si dimette, come già evidenziato sono applicabili anche l’art.
428 c.c. o l’art. 1434 c.c., ai fini dell’impugnazione delle dimissioni.
Potrebbe anche verificarsi il caso che, in relazione a casi di mobbing, siano violate norme disposte dal D.Lgs. n.
626/1994 in tema di salute e sicurezza nell’ambito lavorativo, in attuazione delle Direttive comunitarie al fine di
introdurre un nuovo modello di impresa sicura, compartecipativa e funzionante nella sinergia tra datore di lavoro e
lavoratori.
Rilevano qui la generale disposizione dell’art. 5, comma 1, che stabilisce che “ciascun lavoratore deve prendersi
cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui
possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione ed alle istruzioni e ai
mezzi forniti dal datore di lavoro” (obbligo che è ragionevole ipotizzare che possa essere disatteso dal lavoratore
che si trovi in stato di tensione emotiva e di disagio psicologico) e quella dell’art. 5, comma 2, lettera h),
secondo la quale i lavoratori sono chiamati a contribuire “insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti,
all’adempimento di tutti gli obblighi imposti dall’autorità competente o comunque necessari per tutelare la sicurezza
e la salute dei lavoratori durante il lavoro”, sanzionata penalmente in caso di omissione.
Ancora, nel caso in cui la condotta di mobbing causi un danno alla salute ed integri il reato di lesioni personali,
potrebbero trovare applicazione l’art. 582 c.p. (lesione personale) e l’art. 590 c.p. (reato di lesioni personali
colpose), che sanziona, con previsione generale, chi cagiona per colpa una lesione personale ad altri soggetti.
Per quanto riguarda la condotta di molestie sessuali, esse può integrare il corrispondente reato (disciplinato della
L. n. 66/1996). Sul tema riveste particolare rilievo anche l’ordinamento comunitario, in particolare con la
Risoluzione del Parlamento 11 giugno 1986 sulla violenza contro le donne, la Risoluzione del Consiglio 29
maggio 1990 sulla protezione della dignità della donna e dell’uomo sul lavoro (che invita gli Stati membri a
ricordare ai datori di lavoro la loro responsabilità di cercare di assicurare che l’ambiente di lavoro sia libero dalle
condotte lesive di natura sessuale e dalla vittimizzazione di chi denuncia il fatto o fornisce prove in caso di
gravame), la Raccomandazione della Commissione CE, 27 novembre 1991 ed il Codice di condotta emanato di
conseguenza, come auspicato in tali atti. Queste indicazioni sono ora disposte a tutela dei lavoratori di entrambi i
sessi, contro condotte comprendenti anche quelle attuate da superiori e colleghi e che sono qualificate come
“intollerabili violazioni della dignità dei lavoratori” (e, in certi casi, considerare contrarie al principio di uguale
trattamento di cui alla Direttiva 76/207/EEC).
Infine, è stata ipotizzata la possibile integrazione di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), violenza privata (art. 610
c.p.), e del’aggravante per aver commesso il fatto con abuso di autorità, di relazioni d’ufficio o di prestazione
d’opera (art. 61 n. 11 c.p.c.).
3. I disegni, progetti e proposte di legge
Come più volte accennato, in materia di mobbing sono stati presentati in Parlamento diversi disegni, progetti, e
proposte di legge aventi finalità preventive e di informazione ma anche repressive. Molti di essi sono recenti,
tuttavia ve ne sono alcuni che erano stati presentati già anni addietro, ma per i quali l’interesse è ora rinnovato, in
occasione della diffusione della conoscenza di questo problema.
I testi che mirano proprio a tutelare il mobbing sul luogo di lavoro (definito prevalentemente come violenza o
persecuzione psicologica, terrorismo psicologico) sono il progetto di legge Camera 1813, il progetto di legge
Camera 6410, il disegno di legge Senato 4265, il disegno di legge Senato 4313, il progetto di legge Senato
4512. Su di essi, ovviamente, ci soffermeremo più approfonditamente.
Inoltre, ma con riferimento alle violenze morali e persecuzioni psicologiche in generale, quindi in ogni ambito nel
quale si manifesta la personalità umana e non solo in quello lavorativo, è stato presentato il progetto di legge
Camera 6667. Il progetto di legge ha il titolo “Disposizioni per la tutela della persona da violenze morali e
persecuzioni psicologiche” ed è stato presentato alla Camera il giorno 5 gennaio 2000. Esso prevede sanzioni
penali per chi pone in essere “atti di violenza psicologica” nei confronti di “altri costretti a subire tali atti a causa
di uno stato di necessità,” sanzioni che sono aumentate nel caso in cui tali condotte comportino “per la persona
offesa anche danni psico-fisici o danni materiali ed economici.” All’art. 4, il progetto di legge individua i
comportamenti che integrano la fattispecie generale appena definita.
Infine, in relazione allo svolgimento del lavoro ma limitatamente alla sola condotta di molestie sessuali, sono stati
presentati i progetti di legge Senato 4817, Camera 601 e Camera 5090.
3.1 . Il progetto di legge Camera 1813
Il più risalente progetto di legge presentato sul mobbing nell’ambiente di lavoro è anche quello che più si distacca
dagli altri in materia : infatti, esso consiste di un solo articolo che prevede la sanzione del comportamento lesivo
sotto il profilo penale. Il progetto, che reca “norme per la repressione de terrorismo psicologico nei luoghi di
lavoro”, nell’unica norma dispone che: “Chiunque cagiona un danno ad altri ponendo in essere una condotta tesa
ad instaurare una forma di terrore psicologico nell’ambiente di lavoro è condannato alla reclusione da 1 a 3 anni
e all’interdizione dai pubblici uffici fino a tre anni.” Nel comma 2, sono specificate, con formulazione sintetica
ma che rispecchia i risultati già raggiunti nella sociologia, psicologia e medicina del lavoro, le azioni che integrano la
condotta delittuosa: “molestie, minacce, calunnie e ogni altro atteggiamento vessatorio che conduca il lavoratore
all’emarginazione, alla diseguaglianza di trattamento economico e di condizioni lavorative, all’assegnazione di
compiti o funzioni dequalificanti.”
3.2. Il disegno di legge Senato 4265
Il disegno di legge Senato 4265, porta il tilolo “Tutela della persona che lavora da violenze morali e persecuzioni
psicologiche nell’ambito dell’attività lavorativa.” Come risulta dalla relazione che lo accompagna, il d.d.l. ha,
innanzitutto, lo scopo di “favorire una azione preventiva efficace,” tramite l’informazione-sensibilizzazione e
l’intervento prima che le condotte di mobbing abbiano cagionato danni, ma anche quello di fornire, comunque,
strumenti di tutela ex post, repressivi e riparatori. E ciò non solo al fine, etico e di giustizia, della “tutela
individuale della dignità ed integrità della persona,” per la correttezza nei rapporti umani e la civile convivenza e
coesione, ma anche a quello, di opportunità economica, di impedire la “generazione di diseconomie interne ed
esterne al luogo di lavoro,” per il buon funzionamento delle aziende e la minimizzazione dei costi sociali e sanitari. É
ivi infatti ritenuto che la menomazione dell’opportunità di autorealizzazione che l’individuo trova nel lavoro ha
effetti negativi su entrambi questi aspetti, mentre “la cooperazione nel lavoro è la migliore strada per una
adeguata utilizzazione e valorizzazione delle risorse umane.” Nella sua formulazione il disegno di legge tiene conto e
ne ricava spunti, degli studi anglosassoni, e particolarmente di quelli che sono stati considerati ed hanno fornito
spunti gli studi scandinavi.
Il D.d.l. tutela ogni lavoratore impiegato in “tutte le tipologie di lavoro, pubblico e privato, comprese le
collaborazioni, indipendentemente dalla loro natura, mansione e grado,” e definisce i comportamenti cui esso si
applica (identificanti quindi il mobbing) come “violenze morali e persecuzioni psicologiche perpetrate in
ambito lavorativo” (artt. 1 e 2). Integrano tale nuova fattispecie tutte le azioni che mirano esplicitamente a
danneggiare una lavoratrice o un lavoratore e sono svolte con carattere sistematico, duraturo e intenso.
All’interno di questa ampia definizione generale, conforme a quella raggiunta nella psicologia del lavoro, il d.d.l.
fornisce un elenco di comportamenti specifici che, per costituire “violenze morali e persecuzioni psicologiche,”
devono “mirare a discriminare, screditare o, comunque, danneggiare il lavoratore nella propria carriera, status,
potere formale e informale, grado di influenza sugli altri.” Sono inoltre aggiunti altri comportamenti che vengono
considerati nel d.d.l. allo stesso modo, ed è previsto che “ciascun elemento concorre individualmente nella
valutazione del livello di gravità.” Come si può notare, la copiosa enumerazione di tali singole condotte rispecchia
sia in larga misura i risultati già raggiunti nel nostro ordinamento in materia, sia quelli degli studi scientifici in
materia di psicologia, medicina e sogiologia del lavoro. Inoltre, il d.d.l. accoglie l’estensiva definizione sviluppatasi
in quell’ambito anche quando riconosce espressamente che le condotte lesive possono essere “comunque
attuate” non solo dal datore di lavoro o da superiori, ma anche da pari-grado o inferiori.
Singolare è la previsione, che forse meriterebbe considerazioni a parte, secondo la quale “ai fini dell’accertamento
della responsabilità soggettiva, l’istigazione é considerata equivalente alla commissione del fatto.”
Per quanto riguarda gli interventi a fini preventivi, l’art. 3 prevede l’obbligo per i datori di lavoro e le
rappresentanze sindacali aziendali di effettuare azioni di informazione periodica verso i lavoratori, azioni che
“concorrono ad individuare, anche a livello di sintomi, la manifestazione di condizioni” dei comportamenti lesivi. É
stabilito espressamente che tale attività informativa deve riguardare anche “gli aspetti organizzativi – ruoli,
mansioni, carriere, mobilità – nei quali la trasparenza e la correttezza nei rapporti aziendali e professionali deve
essere sempre manifesta.” Altri strumenti informativi previsti sono: la comunicazione del Ministero del Lavoro e
della Previdenza Sociale relativa alla tutela dalle violenze morali e dalla persecuzione psicologica nel lavoro, che
deve essere consegnata dal datore di lavoro ai lavoratori, al momento della formalizzazione di qualsiasi tipo di
rapporto di lavoro e affissa nelle bacheche aziendali; due ore aggiuntive di assemblea su base annuale, fuori
dall’orario di lavoro, per trattare questo tema, cui possono partecipare rappresentanze sindacali aziendali, dirigenti
sindacali ed esperti.
In riferimento agli interventi da attuare prima che le violenze morali e persecuzioni psicologiche abbiano cagionato
danni, l’art. 3, comma secondo, stabilisce che quando sono denunciati i comportamenti lesivi al datore di lavoro e
alle rappresentanze sindacali aziendali, questi due soggetti devono attivare “procedure tempestive di
accertamento dei fatti denunciati e misure per il loro superamento,” per la predisposizione delle quali
“vengono sentiti anche i lavoratori dell’area aziendale interessata ai fatti accertati.”
Per quanto riguarda le conseguenze dei comportamenti illeciti, l’art. 4 stabilisce che sia nei confronti di coloro che
attuano le azioni lesive, sia di chi denuncia consapevolmente violenze morali e persecuzioni psicologiche che si
rivelino inesistenti per ottenere vantaggi comunque configurabili, “si può realizzare responsabilità disciplinare,
secondo quanto previsto dalla contrattazione collettiva.” L’art. 5, inoltre, prevede, per il lavoratore che abbia
subito il comportamento lesivo e che non ritenga di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti
collettivi, la possibilità di adire il giudice ex art. 413 c.p.c. e di promuovere il tentativo di conciliazione ex art. 410
c.p.c., anche attraverso le rappresentanze sindacali aziendali. Sempre l’art. 5 sancisce la condanna ad opera del
giudice del responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, da liquidarsi in forma
equitativa. In mancanza di ulteriori precisazioni a riguardo, è stato rilevato in dottrina che essa potrebbe
ipotizzare il risarcimento del danno biologico, del danno morale ex art. 2059 c.c. slegato dall’integrazione di un
reato e del danno professionale (da dequalificazione o perdita di chances di carriera). Infine, l’art. 7 recita: “Su
istanza della parte interessata, il giudice puó disporre che del provvedimento di condanna o di assoluzione
venga data informazione, a cura del datore di lavoro, mediante lettera ai dipendenti interessati, per reparto e
attività, dove si é manifestato il caso di violenza morale e persecuzione psicologica, oggetto dell’intervento
giudiziario, omettendo il nome della persona che ha subíto tali azioni di violenza e persecuzione.”
L’art. 8 prevede la nullità di tutti gli atti o fatti che derivano da comportamenti lesivi, nonché la presunzione,
salvo prova contraria ex art. 2728, comma secondo, c.c., del contenuto discriminatorio dei provvedimenti, in
qualunque modo peggiorativi della condizione professionale, relativi alla posizione soggettiva del lavoratore
che abbia posto in essere una denuncia per violenze morali e persecuzioni psicologiche, adottati entro un
anno dal momento della denuncia, compresi i trasferimenti e i licenziamenti (“atti discriminatori e di ritorsione”).
L’art. 6 stabilisce che “le variazioni nelle qualifiche, nelle mansioni, negli incarichi, nei trasferimenti o le dimissioni,
determinate da azioni di violenza morale e persecuzione psicologica, sono impugnabili ai sensi e per gli effetti di
cui all’articolo 2113 c.c., salvo risarcimento dei danni” come stabilito dall’articolo 5 del D.d.l. Come noto,
l’impugnabilità ex art. 2113 c.c. evita che la prescrizione decorra in corso di rapporto lavorativo (come avviene
invece in regime di stabilità reale del posto di lavoro).
3.3. Il progetto di legge Camera 6410
Il giorno 30 settembre 1999, pochi giorni prima rispetto al D.d.l. appena trattato, è stata presentata alla Camera la
proposta di legge (Camera 6410) dal titolo “Disposizioni a tutela dei lavoratori dalla violenza e dalla persecuzione
psicologica.”
Molti sono i punti di contatto con il D.d.l. Senato 4265. Infatti, anche il progetto di legge sottoposto alla
Camera: muove dai risultati degli studi anglosassoni di psicologia del lavoro e dalle statistiche relative; rileva
l’esigenza di una regolamentazione del mobbing sia allo scopo di tutelare la dignità umana e l’integrità psico-fisica
dei lavoratori sia di minimizzare i costi dati dalla formazione di diseconomie interne all’azienda e per la cura dei
danni provocati dalle condotte lesive, con conseguente accentuazione dell’importanza delle iniziative preventive, e
particolarmente di quelle informative; è applicabile sia ai datori di lavoro privati sia a quelli pubblici; prevede due
ore supplementari su base annuale per effettuare riunioni informative sul problema, fuori dall’orario di lavoro;
prevede l’applicazione delle sanzioni disciplinari a chi commette le azioni persecutorie o a chi denuncia
consapevolmente il compimento di vessazioni inesistenti, al fine di ottenere vantaggi comunque configurabili;
prevede, negli stessi termini, la tutela giudiziale ed il risarcimento del danno liquidabile in forma equitativa.
Tuttavia, tra le due proposte vi sono alcune differenze, che meritano di essere sottolineate, seppur
sinteticamente.
L’art. 1, fornisce la definizione di mobbing specificando di disporre la tutela dei lavoratori da “atti e comportamenti
ostili che assumono le caratteristiche della violenza e della persecuzione psicologica, nell’ambito dei rapporti
di lavoro.” La fattispecie “violenza e della persecuzione psicologica” è integrata dagli “atti posti in essere e i
comportamenti tenuti da datori di lavoro, nonché da soggetti che rivestano incarichi in posizione
sovraordinata o pari grado nei confronti del lavoratore, che mirano a danneggiare quest’ultimo e che sono
svolti con carattere sistematico e duraturo e con palese predeterminazione.” Al di là della differenza
terminologica nella definizione dei comportamenti lesivi e nel requisito della palese predeterminazione invece che
dell’intensità, viene in rilievo qui un’importante differenza rispetto al D.d.l. Senato 4265: la limitazione della
definizione di mobbing a quelli posti in essere da colleghi fino al pari grado rispetto a chi subisce i
comportamenti lesivi, con esclusione invece di quelli posti in essere da dipendenti con posizione inferiore nella
gerarchia aziendale: la nozione è quindi più restrittiva, e si discosta da quella prospettata dalla psicologia del
lavoro.
L’art. 1 fornisce anch’esso un elenco di comportamenti rilevanti (precisando che essi “si caratterizzano per il
contenuto vessatorio e per le finalità persecutorie, e si traducono in maltrattamenti verbali e in atteggiamenti che
danneggiano la personalità del lavoratore, quali il licenziamento, le dimissioni forzate, il pregiudizio delle prospettive
di progressione di carriera, l’ingiustificata rimozione da incarichi già affidati, l’esclusione dalla comunicazione di
informazioni rilevanti per lo svolgimento delle attività lavorative, la svalutazione dei risultati ottenuti”), ma rinvia
ad un decreto da emanarsi ad opera del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per l’individuazione delle
fattispecie di violenze e persecuzioni rilevanti ai fini del provvedimento. L’elencazione già fornita nell’articolo
non è perciò esauriente ed è solo esemplificativa.
É espressamente delineato l’ambito in cui il danno di natura psico-fisica provocato dagli atti e comportamenti
lesivi rileva ai fini del provvedimento: ciò avviene quando esso comporta la menomazione della capacità
lavorativa, ovvero pregiudica l’autostima del lavoratore che li subisce, ovvero si traduce in forme depressive (art.
1, comma quarto). In questi precisi termini, è comunque riconosciuta la rilevanza del danno biologico, che si
differenzia dalla menomazione della capacità lavorativa e comprende le altre due eventualità prospettate
dall’articolo.
L’art. 2 prevede anch’esso l’annullabilità degli atti e delle decisioni “concernenti le variazioni delle qualifiche,
delle mansioni, degli incarichi, ovvero i trasferimenti, riconducibili alla violenza e alla persecuzione psicologica” ma
stabilisce solo che essi sono annullabili a richiesta del lavoratore danneggiato, non facendo alcun riferimento,
invece, all’art. 2113 c.c.
Per quanto riguarda le azioni di prevenzione ed informazione, oltre al menzionato decreto del Ministro del
lavoro e della previdenza sociale ed alle due ore supplementari per assemblee informative, l’art. 3 prevede che “i
datori di lavoro e le rispettive rappresentanze sindacali adottano tutte le iniziative necessarie allo scopo di
prevenire la violenza e la persecuzione psicologica (…) ivi comprese le informazioni rilevanti con riferimento alle
assegnazioni di incarichi, ai trasferimenti, alle variazioni nelle qualifiche e nelle mansioni affidate, nonché tutte le
informazioni che attengono alle modalità di utilizzo dei lavoratori,” e che tali informazioni, insieme al decreto
ministeriale contenente le fattispecie sanzionate, devono essere affisse nelle bacheche aziendali.
Relativamente alle misure da intraprendere tempestivamente, l’art. 3 prosegue prevedendo che in caso di denuncia
dei comportamenti lesivi al datore di lavoro ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali, “questi ultimi hanno
l’obbligo di porre
in essere procedure tempestive di accertamento dei fatti denunciati, eventualmente anche con l’ausilio di esperti
esterni all’azienda”, ed “il datore di lavoro è tenuto ad assumere le misure necessarie per il loro superamento”
(dal tenore della frase sembra che quest’ultimo obbligo sia posto solo a carico del datore di lavoro, e non anche
delle OO.SS., come invece nel D.d.l. al Senato). É previsto che “all’individuazione di tali misure si procede
mediante il concorso dei lavoratori dell’area aziendale interessata ai fatti accertati.”
Per quanto riguarda la pubblicità del provvedimento del giudice, l’art. 6 prevede che il giudice può disporre che sia
data informazione del provvedimento di condanna (mentre nulla è detto di quello di assoluzione, a differenza di
quanto stabilito dal D.d.l. Senato 4265), indicando se debba essere omesso il nome della persona che ha subito tali
violenze o persecuzioni.
3.4. Il disegno di legge Senato 4313
In buona parte analogo ai progetti illustrati sinora è il disegno di legge Senato 4313, comunicato alla presidenza il 2
novembre 1999, che reca “Disposizioni a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici dalla violenza psicologica.”
Tuttavia, questo disegno di legge presenta dei tratti distintivi: innanzitutto, esso disciplina espressamente,
all’art. 4, la condotta di “strategia societaria illecita”, vale a dire il comportamento del datore di adottare
strategie, “con lo scopo di provocare le dimissioni o il licenziamento di uno o piú lavoratori, al fine di ridurre o
razionalizzare il proprio personale”: in questo caso, è previsto che il giudice possa disporre per gli
amministratori o i responsabili l’interdizione per un anno da qualsiasi ufficio.
Inoltre, nel prevedere l’obbligo del datore e dei sindacati di accertare la sussistenza di comportamenti lesivi e di
assumere i provvedimenti necessari per il loro superamento, stabilisce specificamente che l’accertamento clinico
sia effettuato da consulenti e psicologi esterni, e ne determina le modalità. Solo nel caso in cui sia accertato il
fenomeno persecutorio il lavoratore avrà diritto al rimborso, da parte del datore di lavoro, delle spese mediche e
psicoterapeutiche sostenute al fine di un suo pieno recupero psicologico, sociale, relazionale e lavorativo.
Ancora, il d.d.l. istituisce presso la Camera di Commercio di Roma uno “sportello unico contro gli abusi nei posti di
lavoro”, allo scopo di offrire consulenza a chi si ritiene vittima di mobbing (fatto salvo il diritto di sindacati e
associazioni datoriali, secondo quanto previsto dall’art. 20, D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, di istituire appositi
organismi paritetici per promuovere la cultura della prevenzione nei confronti delle violenze psicologiche).
Infine, la normativa proposta specifica che gli atti riconducibili alla discriminazione sessuale, oltre ad essere nulli,
devono essere immediatamente comunicati al Ministero per le pari opportunità secondo quanto previsto dalla legge
10 aprile 1991, n. 125;
3.5. Il progetto di legge Senato 4512
Anche il progetto di legge Senato 4512, è assimilabile ai precedenti, salvo che per il fatto che i compiti
preventivi e di accertametno sono affidati ad organi interni appositamente costituiti (di cui fanno parte un
rappresentante del datore di lavoro, uno dei lavoratori ed un esperto nominato dalla ASL competente per territorio)
cui il lavoratore che si ritenga danneggiato può rivolgersi. Deve essere notato che il soggetto tenuto ad assumere
le misure necessarie per la rimozione degli effetti dei fatti denunciati resta però, comunque, il datore di lavoro
(artt. 3 e 4).
Inoltre, è previsto che, a fronte del diritto del lavoratore di chiedere al datore di lavoro informazioni realtive
all’assegnazione degli incarichi, ai trasferimenti, alle variazioni di qualifiche e mansioni, il datore sia tenuto a fornirle
salvo il caso di rifiuto motivato quando possa derivare un danno per l’azienda o i terzi.
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